don Giuseppe Ferretti

Con questo testo del febbraio 2013, don Giuseppe Ferretti (1943), presbitero bolognese che ha vissuto a fianco di Dossetti per un periodo non breve, lascia una testimonianza molto significativa. La lettera si inserisce nella discussione sorta dopo la pubblicazione sul settimanale cattolico bolognese di una lettera di mons. Re a mons. Biffi, ma lascia ogni tono polemico per fermarsi sulle cose che più gli preme dire riguardo a Dossetti. Si parla in particolare del rapporto con la Terra Santa e Israele e sulla custodia e trasmissione della fede nel mondo di oggi.

Don Giuseppe Ferretti (in La strada, bollettino interparrocchiale, n. 78)
Lettera su don Giuseppe Dossetti

«Quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà e ti porterà dove tu non vuoi». (Gv 21,18)

Nell’imminente centenario della nascita di don Giuseppe Dossetti (13 febbraio 2013) desidero anch’io ricordarvi colui che ha lasciato una traccia profonda nella mia vita. Questo è un debito che desidero assolvere nei suoi confronti.
In questo ricordo desidero riportarvi il testo della lettera da me scritta a don Francesco Cuppini, attuale parroco di Calderara.

PACE A TE, DON FRANCESCO.
Ho letto la lettera da te scritta a BO 7 come dolorosa e giustificata reazione a quanto è stato scritto su don Giuseppe.
Ti ho scelto come compagno di un cammino nella memoria che per noi mortali è già lontano nel tempo. Ti ricordo infatti quando salivi a sant’Antonio per soggiornare con noi e condividere la nostra vita.
Da parte mia ebbi il dono di conoscere don Giuseppe, quand’era provicario della nostra Chiesa per l’applicazione postconciliare, articolata nelle dieci commissioni. Era il 1967. La scelta di restare diacono mi portò molto vicino a lui e alla sua comunità, in modo particolare a d. Umberto Neri.
Tu conosci bene quello che accadde nel 1968. La deposizione dell’arcivescovo Lercaro portava soprattutto noi giovani a un intimo disorientamento. La comunità di d. Giuseppe fu per noi come un rifugio nel quale ritemprarci per continuare il cammino secondo quegli orientamenti, che il Concilio stesso, letto e interpretato da questi maestri, ci aveva indicato.
Fu così che di fronte alla possibilità di salire con d. Umberto a Gerusalemme, lasciai la parrocchia d san Severino, in cui facevo servizio per prepararmi a questo evento così importante. A san Severino la mia vita era diventata difficile e don Giuseppe mi consigliò di ritirami dicendomi che quando si lavora nella vigna di un altro o si è d’accordo o si lascia quel lavoro.
Così dal 10 agosto sera 1969 fino al 9 marzo 1970 fui con don Giuseppe e la sua comunità, nella graziosa casetta della Trinità, priva di acqua e di luce.
Ma non desidero parlarti di me. Queste notizie servono per delineare l’ambiente, in cui don Giuseppe è vissuto con noi.
Vorrei ora rievocare la sua immagine in questo periodo prima della partenza.
Don Giuseppe era fresco di un viaggio compiuto in oriente, che dalla Thailandia arrivava all’India fino al medio oriente, dove ancora era viva la vicenda della guerra dei sei giorni, che aveva assai ingrandito il nuovo stato d’Israele. Era in progetto la partenza di d. Umberto per Gerusalemme per lo studio dell’ebraico e con mio piacere ero stato scelto come suo compagno di viaggio e di studio. L’arcivescovo Poma mi aveva concesso il permesso di salire alla santa città.
In questo periodo d. Giuseppe si stava concentrando sull’essenziale, eredità preziosa della nostra Chiesa di Bologna: la Parola di Dio e l’Eucaristia. In un incontro con lui (14 ottobre 1969), egli m’indicava come «l’essenziale è cercare il regno di Dio che riceveremo in eredità quando il Signore tornerà nella gloria con i suoi angeli» (dal diario). Posso testimoniare che la tensione escatologica è stata una caratteristica fondamentale del suo pensiero; mi sembra che questa tensione non abbia annullato il presente della storia, ma piuttosto ne è stata chiave di lettura.
Il ritmo continuato della lettura biblica, la salmodia settimanale, l’Eucaristia quotidiana con la lettura e meditazione del “capitolo”, la vita comune molto sobria portavano il nostro spirito sotto il dominio della Parola di Dio, che purifica e unifica la nostra persona.
Non ho mai sentito dalle sua labbra una parola di amarezza o di critica per gli avvenimenti, che avevano colpito la nostra Chiesa e anche la sua persona. Sembrava che avesse cambiato pagina. Era il tempo di concentrarsi sull’essenziale eredità della Chiesa e guardare a oriente. Se il seme non muore rimane solo … La sua morte ecclesiale e civile sarebbe stata feconda di nuovi frutti.

Egli seguì con grande attenzione il viaggio di don Umberto e mio. Egli rifletteva alle conseguenze che questa esperienza avrebbe portato all’intera comunità. Gerusalemme rappresenta una tappa obbligata – come egli ci dirà spesso – nel cammino verso il profondo oriente e i mondi spirituali che lo caratterizzano. Non si può aver un impatto diretto tra la nostra Chiesa, caratterizzata dalla sua teologia e spiritualità, senza passare per Gerusalemme in un confronto spoglio e concentrato sulle divine Scritture, perché altrimenti è inevitabile una “colonizzazione” occidentale delle chiese presenti in paesi, dove i cristiani sono un’esigua minoranza. Egli amava molto il prologo dell’Ad Gentes (il documento sull’indole missionaria della Chiesa) e lo recepiva come il testo fondante la missione della Chiesa.
In quel periodo vi era una certa diaspora in Grecia e in medio oriente di fratelli e sorelle. Tutti rientrammo nel 1971. Don Umberto e io arrivammo per la veglia di Pentecoste, la sera del 28 maggio. Nel piccolo oratorio di s. Antonio, invocammo tutti insieme una rinnovata effusione dello Spirito Santo.

Il periodo, che va dalla pentecoste alla partenza per la terra santa il 13 giugno 1972, fu molto fecondo sia in rapporto al modo di leggere la divina Scrittura e di ascoltarne la proclamazione sia sulla riflessione sulle chiese nel medio oriente, sul popolo d’Israele e sull’Islam. Tutti quanti abbiamo vissuto quel tempo, siamo testimoni di quale ricchezza fu la lettura e il conseguente commento nell’Eucaristia della profezia di Ezechiele. Allora cominciavo a prendere appunti sugli interventi. D. Giuseppe introdusse l’omelia con simili parole: «Invochiamo lo Spirito di Ezechiele perché ci aiuti a capire quello che il profeta ha scritto. È importante capirlo per comprendere l’Antico Testamento. Anche il Vangelo (Lc 11,47 sg.) ci esorta a questo: Gesù è la via e la sintesi di tutti i profeti».
Noto un suo nuovo intervento al c. 6. Dopo aver affermato che «questo libro getta una luce fortissima sulla realtà della Chiesa, dell’anima e su quello che dobbiamo fare», egli diceva: «Se l’Israele di Dio venisse sterminato totalmente, sarebbe la prova che Dio non esisterebbe. Dio è ed è il Dio d’Israele. Questo capitolo è fondamentale per quello che riguarda la sopravvivenza del popolo di Dio e di Dio stesso. Veramente non si può parlare di morte di Dio finché Israele esiste».
Potrei citare altri interventi di d. Giuseppe, ma mi limito per economia di tempo e di spazio a un solo molto profondo sull’idolatria, tema dominante di queste profezia: «Qui c’è tutta la dottrina dell’idolatria: l’idolo non è nel cosmo, ma nel pensiero, nel cuore. L’uomo può avere come oggetto del suo cuore Dio; però se non si purifica può a un dato momento porre come oggetto del suo cuore il suo pensiero. Questa è un’espressione finissima dell’idolatria. Al v. 2 l’immagine di Dio viene sostituita con l’idolo. Allora Dio dice al profeta di non rispondere; se risponde si lascia ingannare e risponde falsamente. In quel momento deve avere questa “scrutazione” del cuore e percepisce che chi lo interroga ha operato lo scambio tra Dio e l’idolo. Il Signore insiste con Ezechiele perché non si lasci interrogare. Il rifiuto della profezia è un ulteriore incitamento alla conversione. Il profeta che è animato dal Signore accetta questa impossibilità di profetare e di non dire più nulla. Se resiste alla tentazione di dire qualcosa, allora è vero profeta; se vuol dire qualcosa, allora inganna. Prima di parlare bisogna percepire se vi è la sostituzione con l’idolo: se faccio qualcosa inganno e mi inganno. Il Signore non priva il suo Popolo della luce della sua Parola, però vuole da tutti che ci sia una grande delicatezza e un grande rispetto dei suoi tempi» (omelia su Ez 14,1-11).
Nello svolgersi della lettura di Ezechiele si delinearono le caratteristiche della lettura divina, che saranno poi sintetizzate in seguito da d. Giuseppe e che si esprimono in uno accostamento al testo, che dà molto risalto all’ascolto di esso prima di qualsiasi applicazione, che pur è necessaria.

Un altro momento importante furono tre giornate d’incontro tenute in una casetta, che allora era chiamata – se non sbaglio – san Francesco (31 dicembre 1971; 7.25 gennaio 1972).
Furono incontri, che portarono a frutto le varie esperienze dei soggiorni in Grecia e in medio oriente.
Il primo giorno la riflessione si concentrò sul rapporto tra Israele e la Chiesa in ordine alle divine Scritture. Ci furono interventi di natura teologica di d. Umberto e miei più basati sull’esperienza della lettura ebraica del testo, da me compiuta nell’ultima parte del nostro soggiorno.
D. Giuseppe propose alla nostra riflessione i seguenti punti: «1) Fedeltà dalla nascita alla morte: accrescere non diminuire, andare al di là del livello raggiunto». 2) «Esclusività: perché noi dobbiamo fare questo? Dato che non è certo necessario per tutti, soggettivamente? Oggi c’è una situazione nuova nella Chiesa: bisogna che cominciamo a capire che altra cosa è diventare cristiani e restare cristiani in una situazione di cristianità costituita e altro in una situazione di cristianità dispersa, in una situazione pagana, come è la cristianità oggi». 3) Metodo di apprendimento: rapporto diretto col testo; intraprendere il lungo cammino ciascuno da una rilettura sistematica della Scrittura. Leggere e rileggere. Non lo facciamo perché è noioso, perché non introduce a nessun appagamento culturale. Se lo facessimo evacueremmo tutte le nostre impurità culturali, le nostre filosofie. Se leggiamo e rileggiamo la Parola entra dentro, se abbiamo tempo di pensarci, la manipoliamo. Tutto questo che può portare alla memorizzazione è un mutamento completo del nostro cursus e ci riporta al metodo della Chiesa primitiva. Come mai avviene che da tanti secoli si dica, che si può vivere una vita cristiana senza avere rapporto con la Scrittura? E perché la Chiesa delle origini non la pensava così? Perché la Chiesa delle origini si rendeva conto di vivere dispersa in mezzo al paganesimo. 4) Questo metodo della glossa, dell’adoperare le concordanze ecc., implica molta fatica e molta preghiera e quindi molto tempo e ricupero perciò di tutte le perdite di tempo. Se la Scrittura è fatta come riempitivo dei nostri ozi allora non ci sana, ma se è fatta con amore sacrificandosi per essa allora sì, ci sana. Le glosse si differenziano dai commenti perché per natura loro di chiarimenti puntuali non possono acquistare un carattere sistematico. Nella glossa il grado di dipendenza dal testo è massima. D’ora in poi dobbiamo insistere sulla glossa, talora si possono usare dei commenti, ma mai dei trattati. Necessità di metterci alla scuola degli antichi. Non possiamo inventare in base al rapporto col pensiero contemporaneo quanto potremmo se ci mettessimo veramente in rapporto con gli antichi».
L’acquisizione di questi principi segnano il nostro cammino successivo.
Il 7 gennaio 1972 ci fu la seconda giornata. Introdusse d. Giuseppe riprendendo alcune considerazioni dell’incontro precedente sul rapporto con la Scrittura: «Il Signore sta provvedendo molto bene al nostro rapporto con la Scrittura. Forse la cosa che stiamo capendo un po’ di più è che il rapporto con la Parola del Signore è una cosa molto dura. Fino a qualche tempo fa potevamo dare l’impressione che il rapporto con la Parola fosse una cosa certo seria, impegnativa, ma ora si capisce che la fatica del rapporto con la Parola non sta nell’uso di certi strumenti (il che ora si fa molto meno e solo da qualcuno per un senso per tutti, mentre nell’insieme siamo sempre più sollecitati ad impegnarci in un altro modo), ma piuttosto nell’impegnarci in un contatto molto diretto col testo: lettura, rilettura anche a distanza, lasciando spazi intermedi. Come dare più mani di vernice. Ma così la fatica è più grande che leggere dei commenti e ci vuole più tempo. Questo non è cultura, è un impegno grosso dello spirito e senza di esso non se ne viene fuori. Quindi non ci si deve scoraggiare se dopo una prima o una seconda lettura sembra di non portare via niente. Se la Scrittura è quello che è, l’approccio ad essa deve essere diverso da quello di tutti gli altri libri. Bisogna ammettere che ci crei molte tentazioni, prima di tutte quella di piantarla lì e di cercare qualcos’altro. È più facile dormire sulla Scrittura che su qualsiasi altro libro. Se si soffre di insonnia, leggendo la Scrittura si compensa il sonno e le cose che si leggono rimangono più impresse. La pigrizia nei confronti della Scrittura è la più naturale, la più facile. Poi la Scrittura disturba moltissimo. L’averla letta crea difficoltà, mette in contraddizione con se stessi. Eb 4,12: Parola, spada a due tagli, spesso non verificabile a livello di coscienza, ma opera a livello di essere profondo, di vita. L’istinto naturale sfugge questa spada. Se ci mettiamo per questa strada non dobbiamo collegare questo disturbo al fatto che facciamo la Scrittura in un certo modo (con commenti, discorsi, ecc.), anzi più la facciamo in un modo semplice e spoglio più ci disturba».
Questo secondo giorno fu dedicato alla Chiesa Madre di Gerusalemme. Introdusse d. Umberto sul periodo apostolico e io continuai con il resto della storia.
Il 25 gennaio fu dedicato alla nostra salita a Gerusalemme e alla decisione di rimanere latini, anche se altre congregazioni (soprattutto francesi) avevano preferito inserirsi nella chiesa melkita. Dopo aver considerato che nessuna chiesa, presente a Gerusalemme possedeva il diritto originario della Chiesa madre, d. Giuseppe diceva:
«Quanto a noi il problema è chiaro; ci potrà essere un aspetto personale che può porsi solo come fatto spirituale e in ubbidienza; più come possibilità di ricevere dai carismi di un’altra Chiesa, ma questo può essere solo in una misura diversa di contatto, non certo come passaggio di Chiesa. L’elemento nuovo di questo discorso sta nell’avere individuato delle ragioni nuove, totalmente diverse per rimanere latini. Siamo risaliti talmente a monte che oggi abbiamo dei motivi molto più radicali per questa scelta».
Della lunga conclusione a queste stupende giornate, che diedero l’orientamento al nostro cammino, riporto le seguenti parole di d. Giuseppe: «Riassumendo il discorso di oggi, ecco i punti più importanti: a) Rapporto con la Scrittura, che sta diventando più diretto, più spoglio, più immediato. b) Andando in Israele non troviamo una Chiesa stabilita che possa avere la totalità di titoli ad essere la Chiesa originaria. Mantenersi in un atteggiamento semplice e aperto. Andare mantenendo il contatto con la propria Chiesa, l’apertura alle altre attraverso la Scrittura letta nella Terra della Rivelazione. c) Non si può prendere un rito senza sposarne la Chiesa. E questo non sembra non necessario né utile. d) Per rimanere in questa apertura dobbiamo rimanere fedeli alla nostra tradizione, il che per noi si esprime soprattutto nella fedeltà ai nostri Santi» (dagli appunti del Fondo Cappella).

Con queste basi si progettò la partenza, la nostra salita, che ebbe il suo momento culminante con la partenza di don Giuseppe, la sosta a Roma con l’udienza dal papa Paolo VI e infine con la partenza in nave.
Ti riferisco dal diario il colloquio tra il Papa e don Giuseppe. Nell’udienza generale il Papa scendeva a salutare quelli della prima fila, dove noi pure eravamo.
«Quando è giunto da d. Giuseppe si è fermato e si è intessuto un colloquio intenso: il Papa era emozionato e d. Giuseppe pure: noi allo stesso modo. Il Papa dice: “Perché non è venuto a trovarmi”. D. Giuseppe si scusava dicendogli che gli era sufficiente averlo visto in un’udienza generale. “Continuiamo il nostro dialogo in modo silenzioso – ha continuato il Papa – l’importante è che ci sia circolazione”. “Quella c’è” – ha detto d. Giuseppe. Poi d. Giuseppe gli ha dato il Cabasilas e i detti dei Padri del deserto. Il Papa una placca con la Pentecoste e alcune immagini della Pasqua».
Ora non mi soffermo sui particolari della nostra vita a Gerico, dove si trovò casa.
Don Giuseppe vide in questa casa una scelta della Provvidenza, per il significato, che Gerico ha come porta sull’oriente: il Giordano, la linea dei monti di Moab facevano pensare alla grande Asia verso la quale era il movimento più profondo del suo spirito. Ora bisognava stare qui, purificare il proprio cuore e il proprio pensiero a contatto con la divina Scrittura, secondo quelle linee evidenziate nelle giornate di fine e inizio anno.
Inizio il diario di Gerico con questa citazione, tratta dalla lettura continua del giorno: Quando la nube rimaneva per molti giorni sulla Dimora, gli Israeliti osservavano la prescrizione del Signore e non partivano (Nm 9,19). «Qui resterò fino al giorno del beneplacito del Signore».
Durante quel periodo ricco e anche faticoso, tutto s’incentrava sulla divina Scrittura, letta personalmente e insieme nel ritmo della preghiera comunitaria, soprattutto dell’Eucaristia.
D. Giuseppe stava sempre più perfezionando il metodo di lettura e di accostamento alla santa Scrittura.
Così scrivevo, nel gennaio 1973, ad amici le conclusioni di don Giuseppe in una riunione tenuta su questo argomento: «1) nel rapporto con la Scrittura bisogna mantenere spazio per la preghiera pura se no si rompe l’equilibrio (delle due ore di preghiera non si possono passare facendo solo ricerca sulla Scrittura, ma bisogna dare spazio all’invocazione) – 2) bisogna lottare contro la pigrizia facendo tesoro di tutto, sia quanto al tempo che ai mezzi – 3) con una lotta fonda contro la pigrizia si può tenere un contatto puro con tutti i tre testi. Personalmente tendo a muovermi cosi: a mantenere un contatto minimo dei due testi corsivi (che non sono oggetto del capitolo quotidiano) che si attua in una lettura fuori della liturgia e in una lettura attenta nella liturgia. Comincio la preghiera del mattino con una lettura del Vangelo del giorno poi lo metto subito via. La prima Parola che ascolto e quella del Signore. Nella preghiera della sera inserisco la lettura dei Romani se non l’ho letta prima, fuori della preghiera. Questo e il minimo per garantire una lettura continua. Se al mattino ho fatto un’ora di preghiera per conto mio dedico le due ore al testo, altrimenti una la dedico alla preghiera. Concludendo: 1) tenere ferma almeno un’ora di preghiera in cui il fatto di implorazione sia prevalente – 2) un minimo di lettura personale delle due pericopi corsive – 3) lotta a fondo con la pigrizia quindi avere sottomano testi, strumenti … a buon intenditore parole poche».
Questa lettura sempre più si faceva luce sul nostro intimo e guida per la nostra vita. Questo lo si notava nei colloqui personali, in cui prendevo nota di quanto mi diceva.
Nel colloquio prima della mia ordinazione presbiterale (11.9.1981), egli m’invitava ad andare ad Assisi e al sacro speco di Subiaco.
«Ho fatto la notte di Cristo Re del ’55 (lì ho fatto i primi voti nella mani del Cardinale, anche se non era presente). Ho cominciato lì.
S. Damiano 1936 con Lazzati, la scelta dello stato.
Abbi una grande fiducia, grandissima. Allora non si aveva il senso della tragedia che si preparava. Tutto era in pace. Una situazione che aveva dei problemi. Solo un anno dopo (settembre ’37) si cominciarono a manifestare: annessione dell’Austria; ’38 Praga; ’39 guerra. Nel ’36 c’era la guerra d’Etiopia, che sembrava un’avvisaglia periferica, un po’ inebetiti da una certa utopia; nel ’37 no, sentii il dissenso. La guerra: massacri; poi il dopoguerra, anni difficili che sembravano risolversi in bellezza. Il trionfo della DC nel ’48 diede a tutti una falsa sicurezza subito smentita – ‘49 la Cina – ’50 guerra di Corea: anno per anno scadenza continua. Sono 30 anni che si vive sempre più nel provvisorio e nell’angoscia e chi ne fa le spese sono i giovani. È una società che vuole la morte e questa grande angoscia collettiva. E tu devi orientar[ti] in questo senso. Perché i giovani sono così? Possono sembrare un po’ addormentati come [nei confronti del]la Parola o [del]l’Eucaristia. Anche per loro c’è un segno di ambiguità che quindi fa soffrire e poi giunge la pace; oppure c’è un fuoco latente, mentre ti dicono una cosa bella c’è un’altra mezza idea che s’insinua … Noi abbiamo avuto un’altra situazione: siamo stati solidificati. Se ci si lascia coinvolgere da loro si perde grande parte della pace e della sicurezza che avevamo.
Ritengo che sia di grande attualità s. Teresa di Gesù Bambino. Questo dramma lei l’ha vissuto, questo addossarsi tutta la miseria, la tragedia e l’angoscia degli altri. Quelle sue pagine sul pane dell’amarezza sono di una grandissima attualità se ripensate riferite ai giovani di oggi. Sono assorbiti da questo gorgo di morte prima di conoscere la vita.
È un mondo pieno di tenebra [penso al]l’India e la Chiesa ci si irretisce sempre di più.
Per queste cose ci si sente impotenti. Ogni sogno d’intervento si dissipano (sic!). Non c’è più niente altro che la preghiera e il sacrificio.
[…]
Tendere a riparare tutti gli errori di prospettiva e di esercizio pratico nella Messa e nei sacramenti. Scrutarsi molto se ci sono abiti di potere. La Riforma aveva ragione sugli abusi che hanno caratterizzato la prepotenza clericale nei sacramenti. Essere fratello tra i fratelli.
[…]
La confessione frequente unita alla conoscenza di te stesso ti daranno modo di conoscere le anime. Intuizione della psicanalisi: devono, prima di esercitare, fare un lungo tirocinio di autoanalisi. Questo è un riscontro; per confessare bisogna che ci confessiamo noi stessi. La differenza è abissale! Noi ci confessiamo a Dio e nella sua luce, lo Spirito Santo. Prima, durante e dopo conviene chiedere la luce dello Spirito perché aumenti la capacità del nostro sguardo. L’epiclesi deve accompagnare la confessione; l’intelletto non può andare oltre una certa barriera, solo lo Spirito va oltre. La confessione frequente se diviene routine non va bene, se è evento nello Spirito diviene luce sul peccato, percezione di profondità nuove. Dopo però ringraziare lo Spirito»
In un incontro del 4.6.1982 così registrai le sue parole.
«La grande massa non è evangelizzata. A me sembra che stando le cose così nell’attuale struttura della Chiesa, non possa esser evangelizzata. La Chiesa non si serve del diaconato. Questo è il mezzo che il Signore le fornisce (una parrocchia come la vostra [s. Giovanni Battista di Casalecchio] ne ha bisogno di 50)
[…] Dove c’è la presenza di un presbitero e di un diacono ivi c’è la Chiesa e l’Eucaristia. Le aggregazioni politiche non solo deviano ma bloccano. Questo si scambia come la presenza della Chiesa nel sociale. I movimenti sono inquinati di questa seconda intenzione. È una grandissima pena. Anche per me è causa di un travaglio profondo che non ho ancora risolto. Da una parte devo pensare alla fine, a prepararmi davanti a Dio, dall’altra non c’è placazione completa: che fare e dire?
[…]
Pensavo che fosse più gradito a Dio questo silenzio che una parola efficace che seguisse il mio istinto che sarebbe quello di parlare. Ho bisogno che il Signore me lo imponga: o il silenzio o la parola.
La massa non è evangelizzata e riceve parole di terza o quarta mano sempre più decadenti.
Fatti coraggio, appoggiati al Signore e rifugiati in Lui; comincia ora, sarai sempre più in croce. Ci vuole pazienza, calma e fortezza».

Grazie, o piccolo padre, per la tua parola, il tuo insegnamento e il tuo esempio; ci hai fatto sentire la grandezza unica di Dio nella fragilità del tuo essere tutto proteso al Signore e con noi ti sei fatto piccolo e rispettoso per insegnarci a camminare da soli fino al momento in cui con intima sofferenza hai accettato che le nostre vie si separassero. Tu appartieni ai nostri padri, che hanno reso gloriosa la nostra chiesa bolognese, «uomini di fede, le cui opere giuste non sono dimenticate» (Sir 44,10).
Tu non hai bisogno di tante celebrazioni tra noi uomini perché viva è la nostra speranza che quel Signore, che tanto hai amato quand’eri tra noi e ci hai insegnato a conoscere e ad amare, ti ha detto nel gioioso incontro con Lui le parole dette al servo buono e fedele: «Entra nella gioia del tuo Signore!» (Mt 25,23).
Pace a te e la tua memoria sia in benedizione!

Ecco, don Francesco, siamo giunti al termine di questo viaggio nella memoria. Cerchiamo di compiere bene anche noi la nostra corsa, per ritrovarci tutti, al di là di ogni pensiero, nell’abbraccio del Padre.

È giunto il tempo di congedarmi anche da voi amici e parrocchiani, che leggete queste lettere, con cui cerco di tenere viva la comunione tra di noi.
È bello crescere insieme nell’ascolto della Parola di Dio e nella partecipazione all’Eucaristia. La nostra comunità è costituita principalmente per questo.
Nutro viva la speranza di una crescita di tutti verso la pienezza, che è Cristo in noi, speranza della gloria (lettera ai Colossesi, 1,27).
La figura di d. Giuseppe, come ho cercato di tratteggiarvi, ci aiuterà a comprendere meglio il dono inestimabile della nostra fede, la grazia della speranza e l’effusione dell’amore di Dio nei nostri cuori mediante il dono dello Spirito Santo.
«La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi» (2Cor 13,13).