mons. Luciano Gherardi (dicembre 1997)

In queste note del 1997, stese per una visita di politici bolognesi ai luoghi della strage del 29.9.1944, mons. Luciano Gherardi (1919-1999) ricorda la vita di Dossetti. Avvertendola come sintetica di molte stagioni fondamentali, ne sottolinea la tensione verso la vigilanza storica e l’antifascismo e in particolare verso la preghiera, vissuta come primato di verità e non di parole. Si sofferma poi sulla sua Introduzione a Le querce di Montesole, con alcuni significativi incisi.

Dossetti e le querce di Monte Sole

Il mio incontro con don Giuseppe risale al momento in cui il Card. Lercaro sentì il fascino di quest’uomo, che ricapitolava nella sua vita le esperienze capitali di una umanità uscita dalla transizione, assestata in un punto focale di snodo tra passato e futuro. Attrazione per una ricapitolazione non in chiave conformistica, anzi quasi provocatoria. Per la sua intima vocazione monacale già allora don Giuseppe amava la solitudine, amava il silenzio e quindi provocava le folle, non dico perché lo fischiassero ma perché non indulgessero a facili applausi.
Quando si è congedato da noi, ho scritto una paginetta per le esequie, che poi è apparsa in qualche modo sul frontale di S. Petronio; una paginetta scritta in fretta di notte, per mandare alle stampe il manifesto del triste annuncio. Io avevo scritto: “La Chiesa bolognese accompagna nel cammino verso la Santa Gerusalemme del Cielo don Giuseppe Dossetti, maestro incomparabile e testimone della fede nello storico crocevia dai primordi della libertà riconquistata al Giubileo del 2000”. Il Cardinale Arcivescovo volle espressamente aggiungere: “(la Chiesa bolognese) celebra nel rimpianto e nella speranza la liturgia di congedo”, parole che proiettavano l’evento verso il futuro, ma un futuro irripetibile nella storia terrestre.
Esprimevano anche un sentimento doloroso, ma soprattutto il senso di una rinnovata primavera della Chiesa, della giovinezza dello Spirito che è sempre all’orizzonte, la speranza del congedo come un ultimo, e insieme un primo, momento ricapitolativo di tutte le fasi della storia e della divina grazia.
Due giorni dopo la scomparsa, l’aula petroniana e le grandi navate laterali di S. Petronio erano stipate per l’assemblea eucaristica presieduta dal Cardinal Biffi. Risuonano ancora all’orecchio e al cuore le parole dell’Arcivescovo, nel centro di quella città che per mezzo secolo era stata la patria elettiva di don Giuseppe.
Nel suo incipit il Cardinale faceva riferimento alla sofferenza che ha segnato il tramonto di quest’uomo straordinario. La sua lunga sofferenza era andata impietosamente preparandoci a questo momento di tristezza e di rimpianto.
Quando la morte è arrivata ha lasciato tutti attoniti e quasi sorpresi come sempre avviene davanti alle sventure davvero grandi e irrevocabili.
Ricordo di aver pensato, quasi maliziosamente, che don Giuseppe avesse organizzato sapientemente anche il momento della sua morte: aveva scrutato le varie fasi della sua vita e a quel punto il desiderio della patria e la sua monastica avventura approdavano alla Santa Gerusalemme.
“Sentiamo tutti di aver perso una luce”, annotava il Cardinale. Così siamo arrivati a quella fase un pò’ malinconica delle commemorazioni, che sono nello stesso tempo un grido dell’anima ma anche la constatazione di una chiusura: la chiusura della vita di un uomo, ma anche di un’epoca intera.
In largo modo in don Giuseppe rivivevano tutte le stagioni, la stagione della nostra ripresa democratica, del momento conciliare della riforma della Chiesa, l’esperienza di liberazione di questa comunità bolognese ancorata all’Eucarestia come al suo momento creativo, nel bisogno di un’autentica fusione di tutte le classi sociali, di tutte le generazioni, di tutti gli uomini, sillabe irripetibili di Dio, ciascuno col suo grande contributo alla grande pagina della storia terrena dentro alla storia eterna.
Il Cardinale evidenziava il punto focale di don Giuseppe: l’ascolto della parola di Dio. Ascolto silenzioso, ascolto orante, ascolto notturno, ascolto mattutino: lì quell’uomo attingeva la possibilità di interventi al limite provocatori.
Tutti ricordiamo le sue pronunce a difesa dei principi della Costituzione: non era solo la voce di un protagonista, di chi li aveva pensati ed appassionatamente voluti; era soprattutto la ribellione del monaco che non poteva sintonizzare la sua vita sulla piccola cronaca pettegola e mutevole, che scrive sulla sabbia i destini dell’umanità.
Abbiamo perciò compreso il valore della Piccola Famiglia da lui voluta e teneramente curata, oggi retta dall’amico don Athos Righi.
Athos presenta una sua storia totalmente diversa da quella di don Giuseppe: è il ragazzo dell’Onarmo, proviene da esperienze artigianali e domestiche (faceva il cuoco) ma egualmente ha sentito anche lui il fascino dì questo personaggio, divenendone l’erede. L’uomo sapiente che oggi va alla Casetta, là dove un tempo era il contadino di S. Maria di Casaglia, trova in don Athos un erede autentico, un erede seducente.
Se noi vogliamo conoscere l’animus di don Giuseppe nelle grandi scelte della sua vita dobbiamo rifarci alle “Conversazioni”, il suo testamento spirituale. Qui si confessa e parla dei suoi percorsi biografici tra l’eremo e la passione civile.
Don Giuseppe ha accenti che a volte esprimono un tono vibrato, per esempio nelle pagine che riguardano il suo antifascismo. Sembrerebbero in lui fuori luogo. Don Giuseppe è stato un uomo calmo, un ragionatore alieno da impulsi epatici, ma quando parla del pericolo del fascismo, non solo come fatto storico ma anche come rischio sempre incombente, allora veramente diventa un interlocutore assai acceso, che ci coinvolge nell’anima e fa capire che a volte il monaco esce dall’eremo e diventa veramente il difensore dei cardini della nostra democrazia.
La pronuncia più seducente di don Giuseppe, purtuttavia, riguarda la preghiera.
In fondo l’uomo poteva essere il cultore della memoria, poteva legittimamente coltivare una specie di nostalgico richiamo alla Costituente e al Concilio. Invece trova il suo approdo in questo piccolo crocevia sulla strada che da Marzabotto si congiunge con la valle di Grizzana e del Setta. Lo esprime nel brano che dedica alla preghiera come primato di verità: “Maturava in me la convinzione sempre più acuta che fosse necessario risalire alle cause più profonde e quindi ad un nuovo pensiero, un nuovo modo dì vivere il Cristianesimo, nuovo perché sempre quello, sempre più coerente con le sue sorgenti”.
Perciò il suo percorso dalla ricerca scientifica e teologica alla comunità monastica. Cosa ci dice la circostanza? Semplicemente questo: che bisogna ed è possibile vivere da cristiani, vivere con un minimo dì coerenza, anche sopportando qualche disagio, compensato però dal peso di gioia che ci accompagnerebbe, un senso di pienezza, sazietà, gioioso appagamento interiore.
Nella preghiera don Giuseppe non cerca perciò la fuga dal mondo ma il coronamento della sua multiforme, complessa ed avventurosa esperienza.
La sua è una preghiera primato di verità, non di parole. Nessun battezzato, nessun sacerdote in particolare e nessuna guida della Chiesa potrebbe negare il primato della preghiera ma in don Giuseppe il primato teorico è reale, corrispondente al vissuto.
Prendendo sul serio questo primato, “dico che cosa vogliamo essere noi, nella nostra comunità: semplicemente degli oranti, coloro che ricordano, secondo Luca, che Cristo ha detto che bisogna pregare senza stancarsi”.
Qui il Signore ha colto l’acme del discorso: la preghiera prolungata non è noia e accidia, ma è veramente morte, anticipo della morte. Che cosa sarà la nostra morte? “Sarà l’entrata nell’invisibile, sarà rapporto con un volto che non abbiamo mai visto, sarà un dialogo con Lui, un abbandono a Lui”. Così la preghiera anticipa la nostra morte in positivo e in negativo facendoci sentire tutto il peso e l’innaturalità della morte e predisponendoci alla gioia conseguente.
Don Giuseppe invita a una preghiera oggettiva, ancorata alla Rivelazione, che mette in rapporto col Dio cristiano, che è Padre, Figlio e Spirito Santo, preghiera trinitaria che comincia dallo Spirito e attraverso Cristo termina col Padre. “Ogni cristiano deve percorrere tutte le tappe di questa storia nella sua vita di preghiera e nei suoi stati di preghiera, e quindi risalire con Abramo in Paradiso, uscire dalla terra dell’idolatria con Abramo, vivere la schiavitù delle potenze e degli idoli dell’Egitto e partire con Mosè, salire sull’Oreb con lui e attendere il Salvatore con tutta l’angoscia e la consapevolezza dell’umanità peccatrice insieme con la speranza e l’attesa gioiosa di Lui. E vi è infine il mistero della Sua incarnazione e della sua vita, della sua passione e della sua esaltazione”.
Una preghiera dunque, quella di don Giuseppe, ancorata al Libro, che ci descrive tutta la storia della Rivelazione e ne dice le tappe e gli eventi. Sarebbe lungo, qui, descrivere il percorso della “lectio”, della “meditatio”, della “contemplatio”, passando dalla Parola all’Eucarestia, allo scambio Eucarestia Parola, Parola Eucarestia: un percorso fonte di giovinezza perenne e inizio di apertura apostolica verso gli altri.
Con questi ragionamenti e con queste pratiche don Giuseppe può dire: mi sono fatto monaco ma non sono un imboscato, anzi mi sono aperto di più, ho aperto lo sguardo universale, in Cristo Re e Signore, nella vanità del passato, del presente, del futuro.
Nelle “Conversazioni” c’è un appassionato recupero della memoria dì Lazzati, il suo grande amico. Andai personalmente con Lazzati a Monte Sole e lo trovai giovane, vivo, non conformista, un uomo che pur avendo impersonato alcune fasi ricapitolative della vicenda umana si era conservato straordinariamente giovane, come don Giuseppe attingendo un istinto di soprannaturale attraverso l’esperienza di Dio nella preghiera.
Le spoglie di don Giuseppe riposano a Monte Sole, nel piccolo Cimitero di S. Maria di Casaglia accanto alla fossa che accolse le spoglie martoriate di don Ubaldo Marchioni, dopo che i mitra delle milizie naziste lo avevano abbattuto sulla predella dell’altare davanti all’immagine dell’Assunta dell’Elisabetta Sirani.
Marchioni è mio compagno di classe sacerdotale insieme a don Giovanni Fornasini, entrambi martiri di Monte Sole, eroi della carità. Don Ubaldo era un ragazzo venuto dalla zona di Monzuno, un ragazzo straordinariamente sensibile e vivace, era il portiere della nostra squadra di calcio, agilissimo, una specie di Pagliuca. Diventato un emblema di Monte Sole, don Giuseppe ne ha subito il fascino, fino a stabilire la propria abitazione nella casa del contadino di don Ubaldo.
Riaffiora alla memoria l’approdo alla montagna dei martiri che ebbi la sorte di compiere assieme a don Giuseppe quindici giorni dopo il pellegrinaggio guidato dall’Arcivescovo Enrico Manfredinì a Monte Sole.
Quei posti fecero un’enorme impressione al nostro Arcivescovo. Anche Suor Agnese Magistretti che lo accompagnava con le sorelle della Piccola Famiglia dell’Annunziata ne riportò un’intima ferita e nel suo cuore coltivò il proposito di piantare le tende a Monte Sole. Ne riferì a don Giuseppe, che prese subito contatto con quella terra.
E quando arrivammo al Cimitero sostammo per una piccola Ora media recitando Salmi scelti su misura: “Salvami o Dio perché l’acqua mi arriva alla gola” (Salmo 68); “Ho sperato, ho sperato nel Signore e il Signore sì è chinato su di me” (Salmo 39); “Proteggimi o Dio perché confido in te” (Salmo 15).
Cenammo poi alla rustica stamberga del contadino di S. Maria di Casaglia. Era un cumulo di macerie e don Giuseppe disse: va bene, questo è il posto. Due anni dopo riceverà dalle mani dell’Arcivescovo la Pisside schiacciata, emblema della resurrezione di Monte Sole. Coi suoi monaci si insediò in quello storico mistico crocevia mentre le Sorelle si stabiliranno alla Podella che si affaccia alla verde conca di S. Giovanni.
Don Giuseppe è per definizione il monaco di Monte Sole, non per fagocitare un’esperienza che ha come protagonisti le comunità travolte dalle SS ma per sintonizzarsi con quelle realtà quasi in una armoniosa sinfonia orante. La sua introduzione al mio lavoro “Le querce di Monte Sole” sottolinea questo aspetto. Ho pensato alle “Querce dì Monte Sole” molto tempo prima che la quercia divenisse un emblema di eventi e passioni che appartengono alla cronaca. La quercia, al contrario, è simbolo della durata, simbolo di realtà primordiali. Non appartiene alla cultura del commento.
Nell’introduzione al mio lavoro don Giuseppe dice che “la prima cosa da fare in modo molto risoluto, sistematico, profondo e vasto è l’impegno per una lucida coscienza storica e perciò ricordare: rendere testimonianza in modo corretto degli eventi”.
Richiamandosi al III Reich e alle SS, cita Elia Wiesel che nel momento del processo ad Eichmann afferma di aver abbassato lo sguardo davanti a questo personaggio perché ha sentito paura di se stesso e delle proprie potenze dì male. E in effetti nella nostra vita non c’è una cesura così supponente tra buoni e cattivi, schiavi e tiranni. Dovremmo prendere coscienza della complessità che è dentro di noi, che dentro di noi ci può essere tutto e il contrario di tutto.
In secondo luogo, prosegue don Giuseppe, “il ricordo deve essere continuato, divulgato e deve assumere sempre più ispirazione, scopi e forme comunitarie: cioè, per noi, ecclesiali “.
Davanti a questa esortazione, io penso soprattutto ai giovani che non sanno niente di Monte Sole e che rischiano di cadere negli stessi vuoti di significato, in quei momenti equivoci che la comunità anche ecclesiale ha vissuto. E’ veramente necessario trasmettere questa memoria.
In terzo luogo “occorre proporsi di conservare una coscienza non solo lucida, ma vigile, capace di opporsi ad ogni inizio di sistema di male, finché ci sia tempo”. Coscienza lucida: valutando lo spessore medio dei leaders politici attuali, si ha quasi l’impressione di una caduta dai tempi dì De Gasperi, Dossetti, La Pira, Togliatti, uomini che non possiamo accettare totalmente, che possiamo e dobbiamo criticare, ma anche uomini che non manipolavano la verità a misura del proprio capriccio. Uomini tanto diversi, che però si parlavano, si combattevano anche, ma si “sentivano” e nel dialogo sentivano in qualche modo il bene.
Per reagire tempestivamente, ci dice don Giuseppe, occorre avere memoria di Chiesa, il che vuol dire situarci, piantarci nell’ambiente e nel tempo. Molto garbatamente don Giuseppe mi attribuisce il merito di aver dato “nuovi apporti sugli anni di poco antecedenti al ‘44, ad evidenziare per esempio il sottile fermento di antifascismo presente in una parte della formazione seminaristica ricevuta (da me) e dai (miei) compagni di classe don Marchioni e don Fornasini”. Opportunamente avrei “ricordato l’integrità di Alfonso Melloni che ancora laico e dirigente dell’Azione Cattolica bolognese rifiutò le pressioni ricevute perché prendesse la tessera fascista. Così andavano ricordate le prese di posizione antirazziste del Cardinale Nasali Rocca”. Questa è memoria di Chiesa, lealtà doverosa verso i morti, che ora ci vedono come siamo stati e come siamo davanti a Dio.
Continua don Giuseppe: bisogna vigilare contro ogni sistema di male per reagire in tempo a tutto ciò che ha in sé potenza di coagulo negativo, anche se in particolari congiunture storiche si presentassero certe ambivalenze e persino certi vantaggi seduttori per la Chiesa. “Per esempio, nel ripensamento di certe fasi cruciali della storia dei decenni tra le due guerre si vanno ora chiarendo certi dati ormai inoppugnabili e certi consensi più sereni. Così si può segnalare un momento in cui sarebbe stato possibile e doveroso per la Chiesa rendere la sua testimonianza con un rischio alto, anche con una certa probabilità di efficacia”.
Dossetti si riferisce al momento di trapasso da Pio XI al suo successore, nei mesi che vanno dal febbraio all’autunno 1939, prima ancora che la guerra venisse a rendere tutto più complesso, per la S. Sede, che doveva restare e apparire imparziale, per i popoli in conflitto e per l’episcopato e la Chiesa tedesca che si sarebbero sentiti condizionati dal dovere di lealtà verso la patria.
In quarto luogo “occorre compiere una revisione rigorosa di tutto il proprio patrimonio culturale e specialmente religioso, purificandolo radicalmente da ogni infiltrazione emotiva e da ogni elemento spurio che non attenga al nucleo essenziale della fede e che possa favorire ritorni materialistici o idealistici capaci di alimentare miti classisti, nazionalisti, razzisti”. Qui c’è tutto don Giuseppe (forse anche la sua solitudine), la chiave interpretativa del corso della sua vita, quell’intransigenza ideale che in certi momenti è propria dei profeti, dei servi di Dio.
In quinto luogo Dossetti dice: “Più positivamente, occorre nutrire sempre di più la fede e la vita dei cristiani in modo genuino e completo di una conoscenza diretta e amorosa della Parola di Dio e dell’esperienza centrale del mistero pasquale come si realizza nell’Eucarestia”. Direi che il richiamo della Pisside schiacciata ha in questo punto culminante la sua vera interpretazione.
In sesto luogo “occorre rendere possibile, consolidare e potenziare il pensare e l’agire per la pace in nome di Cristo con un ultimo elemento, il silenzio. molto silenzio, al posto dell’assordante fragore che ora impera”.
Queste parole bisognerebbe dirle anche oggi, specie a coloro che brandiscono la bandiera della pace in modo tanto assordante. L’umiltà del silenzio diventa sapienza: “silenzio, calma, quiete ed abbandono, riposo, vanno sempre più opposte all’urlo incessante della stampa, della radio, della televisione. Invece anche da parte dei cristiani ci si inchina all’idolo: si attribuisce all’inflazione delle parole stampate e delle immagini una potenza che non hanno; “per la sua vita, prega un morto; per un aiuto, supplica un essere inetto”.
E’ molto deciso quest’uomo della preghiera e non considera il suo portarsi sulla trincea del silenzio una fuga.
Mi sì consenta di concludere con le parole di Wiesel, nel suo libro “Al sorgere delle stelle”: congedando i suoi personaggi, i morti evocati, dice ancora con una stupenda aderenza biblica “Il silenzio più della parola rimane la sostanza e il segno di ciò che fu il loro universo e, come la parola, il silenzio si impone e chiede di essere trasmesso”.
Salendo a Monte Sole ascoltiamo il silenzio, lasciamo ai piedi della montagna la retorica eloquente e saliamo con passo montanaro, con lo stile di questa gente che veramente erano querce della libertà, querce della solidarietà fraterna, erano le Querce di Monte Sole.