don Giuseppe Ferretti

In queste note dell’aprile 2010, stese durante un pellegrinaggio in Terra Santa, don Giuseppe Ferretti (1943), presbitero bolognese che ha vissuto a fianco di Dossetti per un periodo non breve, ricorda diversi avvenimenti della sua esperienza. Si ferma specialmente sul rapporto di Dossetti con la Sacra Scrittura, come cuore della sua spiritualità e teologia.

Don Giuseppe Ferretti

Don Giuseppe Dossetti. Anch’io l’ho conosciuto.

(http://www.dongiuseppe.it/public/DonGiuseppeDossetti)

Molto si parla di lui per i vari ambiti, che la sua vita ha abbracciato, da parte mia vorrei parlarvi di quello che recepisco essere la sostanza del suo pensiero, la Divina Scrittura.

[Sono nel Kibbutz Almog, vicino a Gerico, luogo del nostro soggiorno: è il 14 aprile 2010 e sono con un gruppo di pellegrini di Riola].

Nel clima di questo deserto ripenso agli anni trascorsi insieme a don Giuseppe a Gerico e recepisco che il rapporto con la divina Scrittura e il pensiero che ne deriva è la chiave che permette di cogliere la visione di Dio, del Cristo e della Chiesa e infine della storia, che ha impregnato il pensiero di don Giuseppe.

[In mattinata siamo giunti a Qalia. Molti sono scesi al mare per fare il bagno. Siamo in tanti gruppi e questa è una sosta ormai obbligata. In attesa di ripartire me ne sto davanti al mare, che sempre più si è ritirato, per riprendere il discorso su don Giuseppe].

Ci si può porre la domanda: In che modo la divina Scrittura è il principio originante il suo pensiero e la costante verifica di esso?

Una prima risposta la si può cogliere dalla Piccola Regola. Questa crea un «ambiente» comunitario dove è possibile ascoltare e vivere la Parola di Dio nella sua sorgente, che è l’Eucaristia.

L’Eucaristia, momento sorgivo della Parola letta e ascoltata nella sua pienezza, che è Cristo, ha il suo prolungamento nella Liturgia delle ore.

La struttura della vita personale e comunitaria si dispiega nello spazio fisico e spirituale creato dal capitolo quotidiano della Scrittura, che è il vincolo costante di unità e di pace dell’intera comunità (9/24).

In quanto inserita nella storia, la Parola di Dío diventa principio d’illuminazione del fluire della storia dei popoli e dell’intelligenza del disegno di Dio al loro riguardo. Lo spirito di d. Giuseppe ha voluto collocarsi in quest’osservatorio per cercare una sintesi feconda tra il disegno del Padre e i singoli popoli e la storia nel suo insieme.

Quest’osservatorio è individuato da d. Giuseppe nell’Eucaristia, come egli si esprime nella piccola regola:

Il Mistero è l’Eucarestia del Cristo, nella quale è tutto: tutta la creazione, tutto l’uomo, tutta la storia, tutta la grazia e la redenzione: tutto Dio, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo: per Gesù,Dio e Uomo, nell’atto, operante in noi, della sua morte di croce, della sua risurrezione ed ascensione alla destra del Padre, e del suo glorioso ritorno (2/17)

Certamente non basta creare delle strutture perché il risultato sia certo. Bisogna realmente mettersi in ascolto della Parola di Dio con quelle virtù che sono richieste, soprattutto l’agape, l’amore.

Questo porta a vivere l’Eucaristia, «il Mistero» e il suo irradiarsi nel giorno, nella settimana e nei periodi dell’anno liturgico, come crogiolo di purificazione (la potatura) e di trasfigurazione, come è scritto ancora nella Piccola Regola:

 

È voto di stabilità: per fede e gratitudine verso l’unica grazia che a tutti e a ciascuno è data nella comunità, per la quale siamo stati afferrati da Cristo Gesù, e per la quale siamo potati e lavorati finché il corpo della nostra miseria sia fatto conforme al corpo della sua gloria (5/20).

D. Giuseppe ha voluto vivere questo e leggere la sua stessa storia di uomo e di cristiano riportando tutto alla divina Scrittura, «norma suprema, che tutto norma senza essere normata da nessuno». Questo comporta che tutti, secondo il loro ufficio e grado, si sentano soggetti alla Parola di Dio come a norma suprema e a principio costante di conversione e perciò di purificazione e d’illuminazione.

Qui si trova l’anima di d. Giuseppe, le sue gioie e le sue sofferenze, il suo servizio alla Chiesa in posti nodali, il suo silenzio e la sua parola.

Quanto appare contraddittorio in lui non è altro che la sintesi di opposti in una ricerca sempre più pura di ascolto e di obbedienza ad una volontà divina non ambiguamente espressa o invocata come avvallo di un proprio pensiero, ma a noi puntualmente comunicata dalla sua Parola.

L’inquietudine, che ad alcuni poteva sembrare insoddisfazione, posso testimoniare che era una tensione a superare un limite, che certamente è ricchezza di pensiero, ma non è la meta bensì una sosta e quindi siamo invitati ad andare oltre in quel sentiero di vita, che è la stessa Parola di Dio e che conduce, attraverso la grande tribolazione, al trono di Dio e dell’Agnello.

A questo proposito concordo pienamente con quanto ha scritto sr. Agnese Magistretti.

È profondamente vera la bellissima frase detta di lui dal card. Biffi il giorno dei suoi funerali: «Don Giuseppe si lasciava illuminare senza resistenze dalla Parola di Dio; perciò dallo specchio terso della sua coscienza poteva riverberarne su di noi lo splendore salvifico»; ma bisogna tener presente il lungo cammino da lui fatto, le varie e molteplici esperienze vissute e anche i diversi punti di riferimento culturali (in margine al sempre egemonico riferimento alla Parola di Dio) da lui inevitabilmente almeno ín una certa misura raccolti.

A questo si deve aggiungere una caratteristica del procedere del suo pensiero. Abitualmente egli coglieva in ogni argomento un’idea-forza, veramente centrale, e la proponeva con la massima lucidità ed energia e, direi, per quanto l’ho conosciuto, col massimo di equilibrio possibile in quel momento e in quella situazione. Ma poteva accadere, e non raramente accadeva, che dopo un certo spazio di tempo cogliesse sullo stesso argomento nuove luci che esponeva con altrettanta lucidità e forza, tanto da poter essere considerato perfino contraddittorio, mentre si trattava sempre di una evoluzione e di un approfondimento sostanzialmente omogeneo del suo pensiero. Certo questo è un procedere comune ad ogni lavoro di ricerca, ma mi pare che in lui fosse particolarmente spiccato. Lui stesso lo riconosceva: diceva sorridendo che non aveva nessuna paura di smentirsi… e ci metteva in guardia contro il prendere troppo alla lettera ciascuna delle sue affermazioni, isolandole dal contesto globale del suo discorso (Da La parola e il silenzio, p. 13).

In questo cammino d. Giuseppe era o non era un teologo?

[Con questa domanda lascio le rive del mar morto per risalire con il gruppo a Gerusalemme. Sono ora nella città santa nella cappella delle suore bianche presso la porta di Damasco e cerco di affrontare questa domanda. È il 13 aprile 2010].

Per rispondere a questa domanda bisogna intendersi sul termine teologia.

Alla scuola di d. Giuseppe e a quella dei grandi Padri ho appreso che la teologia è conoscenza di Dio attraverso lo studio della Parola di Dio accolta nell’alveo della Tradizione.

Da parte mia fin da bambino ho imparato ad amare la divina Scrittura succhiandone il latte dal seno glorioso della nostra Chiesa e crescendo ne ho appreso le lingue originali inserendomi nell’ascolto di questa Parola nei mondi spirituali dell’Israele nel suo pienificarsi nella Chiesa.

Questa nota personale serve a gettare luce sulla teologia di d. Giuseppe e spiego perché.

Quando feci il corso di teologia verificai tutto l’insegnamento alla luce della divina Scrittura. Verso la fine degli anni della teologia incontrai d. Giuseppe. Era il 1966, l’inizio dell’ultimo anno di teologia.

D. Giuseppe si presentava nel suo pensiero con una capacità analitica, con cui smontava ogni certezza non provata con rigore. Ma di che natura era un simile rigore? Esso nasceva dalla parola scritta, esaminata con esattezza «giuridica» per definirne il contenuto senza equivoci. Da qui deriva l’esigenza di conoscere le lingue originali del testo sacro.

Da una conoscenza precisa dello Scritto deriva la capacità di leggerlo nel suo contenuto spirituale e quindi di essere in grado di veder illuminata la realtà dalla Parola di Dio.

Il pensiero teologico si colora delle categorie spirituali e culturali dei singoli popoli e delle singole lingue per cui si hanno diverse teologie. Ma il punto convergente di tutta la parola umana, espressa nelle singole lingue, dev’essere l’unica Parola di Dio, accolta nella sua manifestazione storica, che culmina nella rivelazione di Gesù, il Cristo, il Figlio di Dio (cfr. Gv 20,31).

Egli non si voleva certo sottrarre dal suo essere cattolico latino. Ma questo non lo chiudeva nel proprio mondo né lo bloccava nella Chiesa latina e questo per evitare il pericolo di farne il riferimento assoluto teologico, ben consapevole che tutti dobbiamo relazionarci alla suprema norma della divina Scrittura. Diventando la lettera di questa sacramento dello Spirito, ne consegue il dialogo e il rispetto delle altre Chiese e della Teologia da esse formulata nella loro esperienza spirituale, che ha il suo momento di massima espressione nella Liturgia. Da qui deriva la capacità di saper cogliere il proprio di ciascuna Chiesa senza cadere in facili sincretismi.

Se questa è teologia, allora don Giuseppe è un grande teologo, che s’innalzava sulle ali dei due Testamenti alle altezze della contemplazione del Mistero di Cristo operante nella storia come lievito che tutta la fermenta.

Oggi qualcuno potrebbe sospettare di un rapporto fondamentalista con la Scrittura. Faccio mia queste paura e mi domando: In che modo d. Giuseppe ci ha insegnato ad avere un rapporto assoluto con la Parola di Dio senza cadere nel fondamentalismo? Questo ho imparato.

Il rapporto assoluto si fonda sul fatto che la Parola di Dio prende possesso di te, illuminando il tuo pensiero, rischiarandolo con la luce della verità, dissipando le tenebre che sono in te dopo averle evidenziate al tuo spirito. In tutto questo il nostro intelletto si semplifica e si accosta alla verità senza mai possederla, ma accogliendola a livelli sempre più profondi sotto la guida dello Spirito della verità, che ci conduce alla verità tutta intera (cfr. Gv 16,13).

Il fondamentalismo invece si esprime come un possesso della lettera della divina Scrittura, letta secondo la propria comprensione, che è imposta come unica verità. Ci si esalta nell’evidenza della lettera e non si cerca il mistero celato in essa. Questo possesso rende zelanti ma non amanti e soprattutto indurisce contro chi è diverso da noi.

[Riprendo a scrivere al Sepolcro, il 15 aprile 2010].

La Parola di Dio, pur essendo assoluta, è inserita nel suo sorgere e nel suo farsi scritta dentro un periodo storico, un popolo e una lingua. Forse che questo ne relativizza il contenuto? Niente affatto.

Di essa avviene come del Signore Gesù Cristo.

Il Figlio di Dio si fa Carne dalla Vergine Maria, avendo lo Spirito Santo come principio del suo farsi Uomo.

Così è della Parola di Dio. Questa si fa parola umana da Israele e dalla Chiesa, avendo lo Spirito Santo come principio del suo farsi Parola dell’uomo. Qui sta la sua intrinseca energia nell’essere presente in ogni popolo e in ogni lingua. La Parola di Dio, contenuta nelle divine Scritture, si fa intelligibile alle menti illuminate dallo Spirito Santo, che si fa loro guida nella conoscenza di esse.

Chi le vuole accogliere deve diventare un campo pulito, come Gesù c’insegna nella parabola del seminatore. Le spine soffocano il seme, così accade quando le passioni crescono nell’interno dell’uomo. La Parola non giunge a maturazione. Da qui nasce l’inquietudine di non vedere dei frutti. Solo l’intelletto, reso puro, può riflettere in sé la conoscenza della Parola di Dio e il caldo dell’amore perfetto la porta in noi a maturazione.

Continuando le mie riflessioni con d. Giuseppe qui a Gerusalemme — sono nella chiesa luterana del Redentore — prendo come riferimento la pagina delle beatitudini.

Diventare poveri in spirito significa accettare di percorrere un cammino di semplificazione e di spogliazione del proprio spirito, che porta ad unificarsi nella Parola di Dio, come luogo dell’incontro con Dio. Questa Parola è accolta, ascoltata e letta in Gesù. Unificarsi nella Parola è accettare una strettoia, l’utero di una madre, che ti formi e ti partorisca nelle doglie del Parto. Questa concentrazione è debolezza, è disprezzo, è ignoranza.

Nel periodo in cui fummo a Gerico, soprattutto nei primi tempi, d. Giuseppe accettò queste condizioni.

Io stesso accettai questo come condizione essenziale per aprirci ai vari mondi, che ci circondavano: le varie Chiese, Israele e l’Islam.

Ricordo la riunione prima della partenza del 1972. Si decise di partire con poche cose e soprattutto con pochissimi libri. Dovevamo porre la nostra attenzione al Libro. Ripensando a quel periodo mi pento di non aver conservato un silenzio intenso per l’ascolto, purtroppo nel mio animo mi dissipai in inutili rapporti.

Sono a fianco delle mura di questa amata città, nel tratto che va da Porta nuova a Porta di Damasco, nella tarda mattinata. E mi viene in mente una parola dell’apostolo Paolo: I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! (Rm 11,29). il Padre continua ad alimentarci con la linfa vitale dell’unica e vera Vite e recide quei «rametti», che non portano frutto anche se a noi piacciono. In essi si compiace l’uomo psichico perché vuole apparire: Quante potature dalla sua mano sapiente, paziente e forte! Tutte queste potature le ho viste finalizzate al custodire la sua Parola: «Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato» (Gv 15,3).

In quegli anni ci purificammo nel comune ascolto sotto la guida di d. Giuseppe, prima della nostra dispersione.

Gerusalemme per d. Giuseppe, ha segnato un limite fisico benché egli fosse teso verso l’Oriente, soprattutto l’India. Gerusalemme ha rappresentato la finestra in cui egli guardava il mondo spirituale dell’Oriente.

Anch’io mi affaccio a questa finestra e guardo con il desiderio di essere in terre impregnate di buddismo per una pacifica testimonianza nell’ascolto di quella Parola, che ho ricevuto dalla mia Chiesa e che qui è cresciuta in me.

La sfida «pacifica», che il buddismo fa al cristianesimo, s’incentra su Dio che si rivela, sulla persona del singolo, sulla Carne di Cristo, sorgente della grazia salvifica.

Questo è il sogno di d. Giuseppe, che quanti lo abbiamo conosciuto, abbiamo fatto nostro e che con gioia consegniamo ad altri, su quella strada dell’evangelizzazione da tanti percorsa e che qui a Gerusalemme ha la sua prima pietra miliare.

 

Gerusalemme 15 aprile 2010

[d. Giuseppe Ferretti]