Giulio Andreotti (1919-2013), membro dell’assemblea costituente, presidente del Consiglio e ministro della Repubblica per molti mandati è stato un esponente DC di primissimo piano. Schierato su posizioni diverse da Dossetti, nel ricordarlo a 10 anni dalla morte insiste sul carattere innovatore e concreto della sua azione politica.
Giuseppe Dossetti
pubblicato in «30 giorni», 11 (2006)
È stato celebrato nello storico Salone della Lupa di Montecitorio il decimo anniversario della morte dell’onorevole Giuseppe Dossetti. La partecipazione del presidente della Repubblica ha dato all’evento grande rilievo.
Chi era Dossetti?
Il segreto del successo della Democrazia cristiana nei primi anni del dopoguerra dipese molto dalla capacità di inserimento di giovani in un contesto che – salvo il cambiamento di nome – era guidato dai sopravvissuti reduci del Partito popolare italiano. Non solo il presidente De Gasperi, ma uomini come Scelba, Spataro, Piccioni, ci facevano sentire a nostro agio, impedendo che – qui parlo della mia esperienza personale – fossimo traumatizzati entrando a Montecitorio in una assemblea (la Consulta nazionale del settembre 1945) della quale facevano parte giganti come Vittorio Emanuele Orlando, Benedetto Croce, Francesco Saverio Nitti, Ivanoe Bonomi e Piero Calamandrei.
Fummo promossi “anziani” e vi era una notevole armonia a piazza del Gesù, soltanto in parte movimentata dal libero battitore Giovanni Gronchi.
In questo contesto arrivò da Milano con credenziali di padre Gemelli il professor Giuseppe Dossetti, titolare di Diritto ecclesiastico alla Cattolica. Il “vento del Nord”, del quale fino a quel momento non ci eravamo accorti, soffiò con grande intensità. Senza giri di parole Dossetti definì «vecchio» l’apparato centrale e inadeguate le strutture periferiche.
Devo però dire che dedicò molta attenzione ai Gruppi giovanili suggerendo maggiore visibilità esterna. Fece un discorso molto bello in una nostra assemblea al teatro Volturno e alla fine si mise alla testa di un corteo – novità per noi – che sfilò cantando Bianco Fiore lungo tutta via Nazionale sino alla sede centrale del partito.
Dall’Università Cattolica chiamò altri due colleghi a lavorare per la Dc a Roma: Amintore Fanfani e Giuseppe Lazzati. Al primo fece affidare la guida della propaganda – centrale e periferica – in uno schema completamente nuovo. Agli inizi il professor Fanfani aveva un ruolo di alto funzionario ma denunciò subito l’inadeguatezza dei nostri apparati. Con un volontarismo tipo Azione cattolica – diceva che era illusorio pensare di fronteggiare e battere così i comunisti. Erano certamente un rilievo e una prospettiva giusti; ma De Gasperi manifestò più volte la preoccupazione del costo di un apparato del genere.
Tuttavia i “professori” non si occupavano solo del ruolo di Marta perché davano un contributo molto rilevante ai lavori dell’Assemblea costituente.
Vivevano in comunità in un appartamento in via della Chiesa Nuova.
Roma è una città straordinaria, la Basilica Vallicelliana continua a chiamarsi Nuova dopo tanti secoli. E continuerà.
Ho citato padre Gemelli. Noi della Fuci, forse con giovanile superficialità, non lo invitavamo a presiedere i gruppi di studio perché lo consideravamo troppo accomodante con il regime fascista specie nel sostegno del corporativismo. Più tardi avrei rettificato l’atteggiamento. Fu lui stesso a spiegarmi la necessità di un modus vivendi con il Ministero dell’Educazione nazionale. Del resto la Cattolica era nata su decisione del ministro Benedetto Croce e, dopo il quadriennio sperimentale, era stata definitivamente approvata da Giovanni Gentile.
Dossetti e i suoi amici costituirono la prima “corrente” entro la Democrazia cristiana. Sembrò che le correnti fossero utili alla circolazione delle idee (la frase fu di Nicola Pistelli, promotore di quella cosiddetta della Base, caldeggiata da Enrico Mattei e fortemente contrastata da don Sturzo).
L’atteggiamento del gruppo della Chiesa Nuova verso gli “anziani” (io ero catalogato tra loro, perché non era una distinzione anagrafica) provocava ovvie reazioni, che esplosero quando nella elezione del presidente della Repubblica nel 1948 i dossettiani organizzarono il boicottaggio della candidatura del conte Carlo Sforza decisa dagli organi statutari su proposta di De Gasperi. Fu la prima sortita di “franchi tiratori”. Era un contrasto non tanto verso la persona di Sforza (contro il quale si posero anche pie donne democristiane) ma contro la linea che l’anno successivo divenne lineaatlantica.
Soltanto un intervento personale di Pio XII convinse il mondo cattolico e quasi tutti i dossettiani a recedere dalla contrarietà all’idea di un patto militare. Vi era anche la preoccupazione di non fare monopolizzare dalla sinistra l’opposizione alla Alleanza atlantica.
Conservo la minuta di una lettera che indirizzai al presidente De Gasperi per appoggiare il suo disegno di associare fortemente i dossettiani allo sforzo comune del nostro partito.
Molti “anziani” non condividevano questa apertura e quando nel 1953 la parabola governativa degasperiana si concluse – per il tradimento dei partiti minori alleati – nella elezione dello stesso De Gasperi alla presidenza del partito non lo appoggiarono.
La comunità dossettiana però aveva avuto anche alcune divaricazioni interne, quando Fanfani entrò nel governo contrariamente all’opinione di Dossetti. Di questo momento critico si ha testimonianza in una delle pagine del carteggio La Pira-Fanfani. I redattori della raccolta potevano non comprenderla; e l’ho fatto rilevare andando a presentare il volume a Siena.
Comunque la vocazione politica di Dossetti si andò via via affievolendo fino a convincerlo che non era questa la volontà di Dio e che l’impegno, iniziato nella clandestinità del Comitato di liberazione in Reggio Emilia, fosse arrivato al capolinea. Venne meno al partito un apporto essenziale. Si occupava non solo delle leggi e delle grandi questioni, ma curava con decisione e diligenza anche la ricerca di soluzioni e problemi specifici.
Ricordo a titolo esemplificativo una riunione alla quale mi fece partecipare come sottosegretario. Era un momento di crisi nel mercato del parmigiano reggiano e occorreva trovare soluzioni. Spiegò con minuzia che gli stoccaggi stavano creando problemi anche alle banche che li avevano come garanzia. Il governo doveva intervenire e senza indugi.
Abbandonata Roma e la politica centrale avrebbe voluto seguire senza indugi la sua vocazione sacerdotale, ma il cardinale arcivescovo Giacomo Lercaro lo convinse a presentarsi candidato alla guida del Comune di Bologna, roccaforte storica del Pci.
Dirò incidentalmente che il sindaco Dozza aveva un rapporto corrente con il ministro Scelba, che una volta – ricevendolo al Viminale – mi chiamò al telefono per far sollecitare il Coni per una pratica relativa allo stadio comunale, lamentando i ritardi.
Forse chi suggerì al cardinale l’idea della candidatura dossettiana pensava che la città che vanta (salvo la contestazione con la Sorbonne) l’Università più antica d’Europa si esaltasse all’idea di avere alla guida un cattedratico.
Viceversa Bologna “Dozza” faceva più che premio su Bologna “dotta”. Né giovarono le prediche elettorali di Dossetti sulla riduzione dei consumi e simili.
La via del sacerdozio ormai era chiaramente quello che il Signore voleva da lui. La intraprese con una particolare sensibilità per i Luoghi Santi e per la Scrittura. Il suo piccolo cenacolo – tanto diverso dalla Comunità della Chiesa Nuova – divenne riservato rifugio spirituale e culturale di tante persone, anche lontane.
Lo vidi l’ultima volta a una commemorazione del cardinale Lercaro a Bologna. Con il suo saio aveva un aspetto eremitico. Fu con me molto affettuoso e parlò del suo lavoro apostolico con serena profondità.
Mi venne in mente il passo del Vangelo nel quale la optima pars è considerata quella della contemplazione. Ma negli anni romani Dossetti aveva, come ho già accennato, svolto anche la parte di Marta con tanta dedizione.