Giancarla Matteuzzi

Giancarla Matteuzzi …. si sofferma sugli anni del post-concilio. Temi: la diffusione del Concilio, la trasmissione della fede in tempi di abbandono, la differenza tra sacerdozio battesimale e sacerdozio ordinato, l’affetto della chiesa di Bologna per Dossetti.

Don Giuseppe Dossetti: ricordi del primo post-concilio a Bologna

Mi è capitato in questi giorni di conversare con amici molto più giovani di me sulla figura di don Giuseppe Dossetti e su quello che ha rappresentato per la mia generazione la sua presenza nella chiesa bolognese negli anni del Concilio e dell’immediato post concilio.
L’occasione era stata offerta dall’uscita della seconda edizione del libro del card. Biffi, che con la sua lettura della figura di don Dossetti ha suscitato, in chi per ragioni anagrafiche non lo ha conosciuto, il desiderio di saperne di più.
E’ per questi giovani amici che scrivo queste righe: sono ricordi personali, testimonianze di una persona come me che non ha avuto dei rapporti speciali con lui, né particolari ruoli nella chiesa, ma ha semplicemente vissuto nella Chiesa di Bologna accogliendo il dono della presenza di don Giuseppe, nei primissimi anni del post-concilio.
Anche se la mia riconoscenza verso don Giuseppe non si conclude nei primissimi anni del post-concilio, io, in questo contesto, mi limiterò a quegli anni.
L’inizio della mia partecipazione consapevole alla vita della chiesa porta la data del Concilio. Quando si chiudeva il Concilio io facevo l’esame di maturità.
Ho vissuto gli anni dell’Università in FUCI, la cui sede era accanto alla chiesa di S. Sigismondo, dove per l’impegno di don Giuseppe era stata costituita dal card. Lercaro una piccola comunità di presbiteri giovani che avevano accolto il Concilio come una grazia, ne godevano per primi la ricchezza, ci trasmettevano la loro gioia di vivere in una Chiesa “fatta così”.
Erano molto legati a Dossetti, anche se nessuno di loro faceva parte della sua comunità religiosa. Don Giuseppe, era il nostro punto di riferimento, sia come riferimento spirituale che come indirizzo pastorale.
Il mio primo incontro privato con lui fu nel ‘66-‘67. Doveva nominare un nuovo assistente della FUCI e volle incontrare singolarmente alcuni “fucini”: in privato, ci chiamò ad uno ad uno nel suo studio, per avere, evidentemente, vari punti di vista sulla situazione dell’Università, e sulla FUCI, informazioni che gli servivano in vista degli assistenti che doveva scegliere. A me parve una cosa ovvia: in seguito ho ripensato spesso a quell’incontro niente affatto ovvio, invece, e allo stile di Chiesa che quel modo di procedere rivelava.
I nostri preti ci portavano il sabato sera alle liturgie della Parola a Monteveglio: in un contesto liturgico curato, con canti appropriati che don Rivani per l’occasione componeva, don Giuseppe, don Umberto e don Efrem, ci spiegavano i testi della liturgia domenicale. L’abbazia si riempiva di preti e laici che si ponevano a quella scuola di preghiera e di ascolto. La Bibbia, che fino a qualche anno prima era stato un libro sigillato, si apriva e sprigionava una ricchezza per noi sconosciuta. Saltavamo la cena per raggiungere in tempo l’Abbazia e si tornava a casa di notte, per quella strada buia tutta sassi e buche, “caricati”, contenti, confrontandoci in macchina su questa o quella osservazione che aveva aperto spiragli di luce.
E quando si andava da lui come provicario della Diocesi a chiedergli: “Cosa dobbiamo fare in Università?” aspettandoci suggerimenti per incontri culturali nei vari gruppi di Facoltà, ci sentivamo invece ripetere: “Leggete la Bibbia, fate gruppi biblici, leggetela a fiume, non spaventatevi se non capite, una pagina aiuterà a comprendere l’altra…”
E, così, attorno a S. Sigismondo sorsero tanti gruppi biblici nei collegi universitari, nelle case, nelle parrocchie, a cui si partecipava con entusiasmo.
E quando ci si incontrava con don Giuseppe facilmente il discorso andava su questo Libro che il Concilio, finalmente aveva messo nelle nostre mani. E ci faceva sentire di essere una generazione privilegiata, perché per secoli nella chiesa cattolica la Bibbia era stata ignorata.
Se nella nostra chiesa è passata una certa familiarità con la Scrittura, in quegli anni, di certo molto dobbiamo alla sua esperienza illuminata, alla sua fede, alla sua convinzione che si trattava di un libro prezioso nel quale Dio rivela se stesso.
Oggi, forse, gli amici giovani che chiedono ragione di quegli anni non possono immaginare, credo, cosa abbia voluto dire per noi l’acquisizione che nella Bibbia Dio rivela se stesso. Eravamo stati educati a credere a delle verità di fede, formulate in modo che ormai risultavano astratte e lontane. Eravamo abituati più a dire delle preghiere che a pregare. Dio che rivela se stesso era qualcosa di affascinante ed entusiasmante. Leggevo la Bibbia con l’amore di chi cerca in quelle pagine il volto di Dio, che in quelle pagine si rivelava. E la preghiera allora diventava la risposta a lui, in un dialogo vivo, esistenziale. E su questo, don Giuseppe ad ogni occasione aggiungeva elementi di consapevolezza che i nostri giovani assistenti ci aiutavano a sviscerare e ad interiorizzare.
Io non so cosa sarebbe stato della mia fede senza quello che ho ricevuto in quegli anni. In quegli anni ci fu il ‘68, anni caldi che per molti segnarono l’abbandono della fede e della chiesa: per me –e per tanti amici- la testimonianza dell’amore di don Giuseppe per la Parola, fu contagiosa e generò invece un attaccamento irreversibile alla nostra chiesa che sprigionò energie fresche di servizio.
Mentre la riforma liturgica ci stava mettendo nelle condizioni di capire nella nostra lingua quanto si stava celebrando, di ascoltare le letture che con tanta abbondanza ci venivano offerte, di partecipare in modo “attivo” alla celebrazione.
I giovani non sanno cosa era la messa prima del Concilio, non possono forse capire quale rivoluzione benefica è avvenuta in quegli anni…
Preti e laici insieme, là dove eravamo, senza avere fatto scelte monastiche, si sperimentava una vita comunitaria che aveva nella Bibbia e nella Liturgia i suoi cardini fondamentali.
Non si poneva l’accento sulla distinzione laici e clero in quegli anni: si era piuttosto sollecitati a scoprire la centralità del battesimo e a vedere nel battesimo il fondamento di corresponsabilità e di comunione di tutto il popolo di Dio: vivere da cristiani era il grande e semplice obiettivo comune. Ricordo bene un incontro con don Giuseppe sul laicato e ho davanti agli occhi le sue lunghe braccia spalancate mentre diceva: “Il sacerdozio battesimale è come una linea lunga, lunga, lunga e l’abbiamo tutti in comune. In fondo, un pezzettino grande così –e avvicinava pollice e indice- differenzia i preti dai laici!” Non era certo un linguaggio teologico e in quella conversazione don Giuseppe usò anche –e rigorosamente- il linguaggio teologico, ma era efficace, il gesto di quelle braccia magre e lunghissime e la manica della tonaca un po’ ritirata che non raggiungeva tanta apertura…
Ci fu il Congresso Eucaristico nel ‘67, in quell’anno Dossetti era provicario e lo organizzò in gran parte lui: io ricordo una veglia a S. Michele in Bosco di tutta la notte animata dai monaci della piccola Famiglia dell’Annunziata. I testi scelti con cura sapiente che si illuminavano tra di loro, mi prendevano e non mi fecero sentire il sonno. In quel contesto ci fu anche una celebrazione comunitaria della Penitenza: la dimensione comunitaria in un sacramento che avevo sempre vissuto in modo privatistico, mi aprì ad una consapevolezza nuova: in seguito a S. Sigismondo si prese l’abitudine di fare celebrazioni analoghe –e io devo dire che se non ho mai lasciato la confessione , come accadde a molti miei coetanei, lo devo a questa dimensione comunitaria -che scoprii quella notte- che dava il senso di quel sacramento, e ai preti di S. Sigismondo che raccolsero questa sensibilità. Terminato il Congresso, mi venne spontaneo scrivere queste cose a don Giuseppe, per ringraziarlo, e lui mi rispose che il mio bigliettino gli aveva fatto particolarmente piacere, perché le critiche che aveva ricevuto erano invece tante….
Finita l’Università, nel momento in cui dovevo decidere “cosa fare da grande” andai da lui. Volevo fare studi teologici, ma non avevo le idee chiare. Lui mi suggerì alcuni criteri, mi diede consigli e mi prospettò alcune possibili strade –anche vicine ai percorsi che faceva fare alle sue suore-, ma mi lasciò con questo compito: “legga durante l’estate tutto il Nuovo Testamento in greco, quando lo avrà finito, torni, che riprendiamo il discorso”. Io non finii mai di leggere il Nuovo Testamento in greco. E quindi non riprendemmo più il discorso… Feci tesoro invece dei suoi consigli. Ho ripensato spesso in seguito a quell’incontro e a quel compito. E l’ho poi interpretato come una specie di prova di vocazione, o qualcosa del genere.
Nel ‘74 con alcuni amici feci il mio primo pellegrinaggio in Terra santa. Cominciammo a prepararci molti mesi prima e andammo da lui che ci diede consigli e ci indicò letture: ricordo ad esempio tutto un percorso di approfondimento sul sabato, tra cui il volume Il Sabato di Heschel. Quando arrivò il tempo del pellegrinaggio, lui si trovava a Gerico e, ovviamente lo andammo a trovare. Non ricordo in modo puntuale lo svolgimento della conversazione, ma ricordo la sua preoccupazione che non si perdesse la centralità di Cristo.
Questi sono i ricordi personali più antichi che ho di don Giuseppe, e sono convinta che la mia generazione debba molto a lui, e non solo chi ha avuto con lui rapporti speciali, quanto per una certa aria che tutti respiravamo, che era l’aria buona del Concilio e che don Giuseppe contribuiva a rendere calda e profumata. E noi ne eravamo consapevoli.
Termino con un episodio della fine degli anni ‘80 che ritengo molto significativo: a Roma, nell’aula Nervi nella giornata della canonizzazione di S. Clelia, Giovanni Paolo II quando vide don Giuseppe lo abbracciò con un caloroso abbraccio. Ma la cosa più bella e anche commovente fu l’applauso spontaneo, fragoroso, interminabile che subito si levò dall’assemblea, tutta di bolognesi, come a suggellare, a confermare, quell’abbraccio.
Per me fu la cosa più bella di tutta la giornata: una testimonianza di affetto verso don Giuseppe e quasi di un riconoscimento popolare: del popolo di Dio di Bologna. Di quel popolo mi sentii in quel momento parte, come non mai.

[Giancarla Matteuzzi]