Enzo Biagi (1971)

Enzo Biagi (1920-2007), giornalista, fece visita alla comunità di don Dossetti il 21 novembre 1971. Era la festa di Cristo Re e dopo la celebrazione eucaristica ebbe un colloquio con Dossetti di cui scrisse su «La Stampa» il giovedì successivo, nella rubrica “I miti di ieri”.

I miti di ieri. Dossetti

(«La Stampa», 25 novembre 1971, p. 5)

1971 Biagi - I miti di ieri. Dossetti [La Stampa 25.11.1971] (Small)
La messa è finita. Più di due ore. I canti mi ricordano un rito ortodosso, a Mosca. Umani, forti, sconvolgenti. Don Giuseppe Dossetti sta sulla porta della piccola chiesa. Ha fra le mani un canestro di giunchi. A ogni fedele offre un dolce, un biscotto. Sorride, saluta. Anch’io ricevo, senza merito, questo dono; un gesto che forse si ripete, come tra i cristiani che uscivano, nella notte, dalle catacombe.
Dico: – Sono un giornalista e un peccatore.
«La prima qualifica» mi risponde «è la più grave».
«Questo è il mio lavoro».
«Capisco. Ma temo più il piombo delle linotypes di quell’altro».
« Don Giuseppe, lei mi assegna, in ogni caso, una brutta parte».
«Non so se mi sarà possibile fare un po’ di bene; ma non ho che un desiderio: il silenzio. Questo è un rifugio…».
« Ho violato, certo, i confini. E inoltre, debbo dirle che non sono un credente».
Mi prende sottobraccio, passeggiamo sul sagrato. Le foglie degli aceri sono rosse, la nebbia sfuma le colline, si sentono, ogni tanto, gli spari dei cacciatori.
«Chi lo sa» dice «chi è più vicino al cuore di Dio».
Ho visto Papa Giovanni un mese prima che se ne andasse. Anche lui accettava la pena dei fotografi, le luci crudeli della televisione.
«Ognuno ha il suo posto e il suo giorno. lo sono qui soltanto per spiegare, a coloro che lo desiderano, il Vangelo».
« Don Giuseppe, vorrei fare anch’io qualcosa per lei».
«Non scriva».
«Don Giuseppe, è il mio mestiere. Mi perdoni».
Queste pagine mi costano fatica. Capita poche volte di avere un senso di colpa nel raccontare una storia. Mi sembra di essere entrato, senza garbo, non in punta di piedi, come sempre vorrei, nell’intimità di un altro; io, uno straniero.
Ho davanti agli occhi quest’uomo dal volto affilato, da intellettuale, ma che respinge ogni intellettualismo; questo prete che, quando gli dissero di presentarsi candidato come sindaco di Bologna, si rivolse agli elettori dicendo: «La Chiesa mi ha comandato: vai, e io obbedisco. Ma ciò non significa che io sia un clericale», un sacerdote che ha, sulle spalle un po’ curve, il peso di tanta fatica. Quando si raccoglie in meditazione, e copre gli occhi con le dita, sembra che gli sia caduto addosso il dolore di tutti.
Lo chiamavano «il professorino»: a ventun anni era laureato in legge, fu il più giovane docente universitario d’Italia. È stato vicesegretario della DC, deputato, ispiratore della corrente di sinistra; ha svolto, nel Concilio, una parte riservata e importante. Quando andò coi partigiani il suo nome era “Benigno”; gli intimi lo chiamano “Pippo”, ma io credo che non ci sia nessuno che gli si rivolga così. È gentile, i suoi modi sono estremamente contenuti, lievi, ma dà soggezione: capisci che sta da un’altra parte, più in alto.
Vive, coi suoi seguaci, in alcune case abbandonate dai contadini: sono con lui tre preti e due diaconi. Le monache stanno in un altro cascinale. D’estate, nei mesi buoni, pregano sotto le piante di quercia, sotto gli olmi dei boschi. Avevano lasciato la vecchia abbazia, si sono rifugiati quassù, e raggiungerli è già una prova di fede. Fanno tutto da soli: lavorano, studiano; vestono, quando vanno per i campi, o legano libri, o correggono bozze, gli abiti che si comperano nei mercati delle fiere.
La comunione è fatta con il vino nero e un po’ aspro delle vigne di mezza costa; il pane è una focaccia casalinga. Un mattino don Giuseppe battezzò una bimba coreana e l’immerse nell’acqua, tutta intera, come Gesù nel Giordano.
Don Giuseppe crede nella parola, e anche i fedeli intervengono a commentare le testimonianze degli Evangelisti con le Lettere degli Apostoli.
Davanti a me sono due sposi greci, con un bambino che lancia piccole grida, in fondo alla panchina c’è una lunga ragazza negra.
Oggi si discute una profezia che dice: «Gli ingiusti e i superbi bruceranno come paglia…» e quella epistola di Paolo che ammonisce: «Non mangiamo gratis il pane di nessuno. Chi non vuole lavorare neppure mangi».
Don Giuseppe spiega: «Se non ci fossero le persecuzioni, il nostro tempo sarebbe una storia vuotata della tensione che annuncia il ritorno del Signore. Significherebbe che Gesù è morto per sempre. Gli eventi negativi sono invece i bagliori che compaiono prima dell’ultima fine. Bisogna rinunciare, per essere vincitori, alle nostre difese umane. Bisogna lavorare, fare il proprio dovere quotidiano non nella prospettiva dell’effimero, ma per il ritorno di Dio». È la predica di quel laico che proclamava, ai suoi amici di partito: «Si deve combattere fino in fondo ogni concessione al machiavellismo. Si deve avere il coraggio, a un certo momento, di essere nudi, privi di tutto». Un discorso, evidentemente, impopolare. E ai comunisti, nei giorni di Budapest: «lo non accetto nessuna ragione di Stato, perché non si può fare il male perché venga il bene». Non dimostrava, neppure allora, orgoglio e presunzione, né si lasciava condurre da spirito d’intolleranza. Aveva scritto a Togliatti, poco prima che morisse: «Abbiamo avuto un rapporto che mi sembra sia stato ricco di umanità e di sincerità». E a Giuseppe Dozza, mentre stava lasciando il palazzo comunale: «Credo di avere una certa esperienza di simili distacchi. So che non sono, che non possono essere, senza una qualche dolorosa risonanza interiore».
Ma voleva anche una Chiesa «più evangelicamente povera» e deplorava, con dispetto dei benpensanti, «le carenze morali profonde di un sistema economico, sociale, politico, culturale, la troppa diffusa debolezza di un mondo che ama chiamarsi con enfasi libero ma è ben lungi dall’esserlo».
Gli autori che leggeva con preferenza, dicono, erano Gobetti, Gramsci e Jemolo, ma la sua vocazione lo chiamava alla vita contemplativa. Credo si sia confidato soltanto con la madre e col suo confessore, un parroco di campagna, dalla fama di candido servo di Dio, che viveva cibandosi di erbe. Aveva fondato un Centro di documentazione per far ricerche e meditare sui testi sacri e sulle vicende dei cattolici, ma la sua speranza era quella di potersi allontanare dalle nostre avventure, capitoli brevi e fuggevoli di un destino che molti di noi non capiscono.
Il 24 marzo 1958, a Cavriago, un paese del Reggiano dove è nato, ha detto la prima messa. C’era il fratello preside, la mamma, tanta gente. Quando fu il momento del sermone cominciò a piangere, non seppe trattenersi: «Non siete venuti per me… non avrebbe alcun significato se foste venuti per me».
Fuori, sulla piazza, c’erano gli «altri», quelli che ai comizi portano la bandiera rossa, ma che l’aspettavano per fargli sentire che capivano, sapevano che lui voleva aiutare ancora il suo prossimo, andando a spiegare, in una cappella dai muri sporchi, davanti a un altare di legno sormontato da una croce e adorno soltanto di due ceri e di due rametti di sempreverde, la vita, la morte e la certa resurrezione di Nostro Signore. Quando l’assemblea si scioglie, il piccolo coro intona il salmo che dice: «Inneggiate a Dio con la cetra e coi canti di gioia», e nello sguardo limpido di Giuseppe Dossetti c’è una luce, il segno di una invidiabile pace, di una possibile felicità.
[Riedito in: Enzo Biagi, Italia, Rizzoli, Milano 1975, pp. 91-94
con aggiunta finale:
“Adesso è in Palestina, nel deserto, a pregare. «Bisogna prepararsi all’ultimo atto,» ha detto nel congedarsi «senza di che nulla avrebbe senso». C’è, in questo panorama grigio e insensibile, chi vuole offrirsi perché gli altri si salvino, chi è pronto ad ascoltare”].