Lavoro: Studio e lavoro intellettuale

Testi di G. Dossetti

1. –                   da: Piano di studi (1953) (in G. Dossetti. Prime prospettive e ipotesi di ricerca, a cura di G. Alberigo, Bologna 1998, Appendice III, p. 111-117)

Nel Piano di studi che era alla base del nascente «Centro di Documentazione» si noti la precisa coscienza che per affrontare la crisi epocale in corso era necessario uno sforzo culturale nuovo nei modi, nella formazione dei membri e nelle fondamenta bibliche dell’approccio.

[…]

  1. I) Il Fine che l’ordinamento ricercato per il nostro lavoro si deve proporre è, dunque: di pervenire entro qualche anno alla formazione omogenea e alle prime produzioni (ancora prevalentemente di saggio) non di un gruppo di singoli ricercatori ma di una comunità di ricerca, che costituisca in sé una unità di certa completezza

– e precisamente di una comunità di ricerca situata nell’ordine ecclesiale

– con titolo di collaborazione non gerarchica e non pubblica, a livello più che nazionale

– «aliquod auxilium», però intenzionale, specializzato, e permanente, per almeno alcuni dei settori più importanti– della conoscenza riflessa sistematica che la Chiesa deve avere di sé e del flusso dei suoi rapporti con l’ordine civile.

Più precisamente, ancora:

– di una comunità di ricerca che, pur mantenendosi nei limiti propri dell’impegno di ricerca, senza contaminazioni attivistiche (e tanto meno politicistiche),

– tuttavia sappia essere aperta agli impulsi della vita ecclesiale correlata attivamente e passivamente alla presente congiuntura

– e soprattutto alle esigenze più gravi e universali e più insoddisfatte dell’umanità cristiana del nostro tempo;

– continuamente si ricordi di verificare e la propria esistenza e il proprio fine e il proprio metodo, alla stregua di quelle esigenze più soffrono, consapevolmente o non, la passione e il desiderio di una ostensio spiritus et virtutis nella Chiesa, ossia sitiunt Ecclesiam. Tanto che una simile apertura della nostra comunità di ricerca dovrà trovare:

– un proprio modo di essere e di perfezionarsi, non solo (e fondamentalmente) nella nostra vita

– ma anche (e specificamente) nel nostro studio e nel nostro lavoro culturale,

– sì da assicurare in noi la ricettività, non solo affettiva ma anche di conoscenza riflessa , delle esigenze più gravi di quanti ci circondano

– e sì da assicurare da noi una irradiazione (non soltanto, anche se principalmente, attraverso la validità del nostro modulo di vita personale e comunitaria) anche attraverso la fornitura mediata o immediata, se non di soluzioni, per lo meno di criteri di interpretazione,

– senza fretta, senza presunzione, senza preoccupazioni interventistiche,

– ma, a tempo opportuno, senza timidità, e con piena consapevolezza dell’urgenza grave di nuovi punti di partenza, anche culturali, per l’orientamento e la formazione delle dirigenze del mondo cattolico”,

 

  1. II) La formazione, come formazione totalmente nuova

– in sé: per l’obiettiva mancanza di precedenti e per la postulazione di nuove categorie, di nuovi metodi, di un nuovo spirito, da conquistarsi pian piano nello sforzo comune;

– per rispetto a ciascuno di noi: in quanto ciascuno di noi , qualunque sia il grado culturale cui è pervenuto, sa di doversi assoggettare a una rifusione totale, considerando, quindi, le nozioni singole come la sintesi eventualmente raggiunta quale materia disponibile per la nuova forma. In questo bisognerà controllarci a vicenda: ma soprattutto dovranno essere controllati quanti di noi più maturi possono offrire maggiore resistenza alla piena disponibilità verso la formazione culturale comunitaria.

 

III) Il piano di formazione: non può essere preordinato per un periodo più breve di un triennio: direi piano triennale, aperto sulla prospettiva – almeno per alcune parti – di un secondo triennio.

Esso comprende necessariamente due parti:

– le fondamenta della formazione comune

– le linee della formazione propria di ognuno avuto riguardo ai suoi precedenti, al suo stadio attuale, alla natura della specializzazione cui è destinato.

 

  1. IV) Le fondamenta della formazione comune:

1) La parola di Dio: oltre la conoscenza spirituale per la vita, lo studio sistematico della Sacra Pagina per la scienza (v. allegato A):

  1. a) Primato: la Scrittura al primo posto, fondamento di tutto il nostro edificio culturale:

– non solo nel primo triennio: certo in esso in modo specialissimo, con una prevalenza marcata su ogni altro impegno di studio;

– ma anche permanentemente: proprio come forza prima ed ultima di tutto il nostro sapere.

Tanto che questo primato può realizzare un altro modo proprio di qualificazione dell’oggetto e della natura della nostra impresa culturale rispetto ad altre analoghe che possano essere pensate o iniziate in una delle tante zone correlative appartenenti all’ordine civile, invece che all’ordine ecclesiale. Infatti, proprio da questo primato possiamo ricavare qualche cosa di meglio della contrapposizione (ancora un po’ meccanica e forzata e perciò mutilante) tra imprese di ricerca ecclesiologica e imprese di ricerche sulla società civile, e ancor più della contrapposizione eventuale tra impresa di ricerca teologica, di teologia speculativa, e imprese di ricerca filosofica. Forse la nostra impresa di ricerca si qualifica bene, se si dice che essa è un’impresa di ricerca intorno all’essere e al muoversi della Chiesa nella storia, assumente per asse conoscitivo la teologia biblica

  1. b) Metodo di studio: è certo che si tratta di trovare una linea nostra quanto al metodo, alla quantità di questo studio sistematico della Scrittura, al suo rapporto con le altre discipline da noi coltivate e con la problematica storica e in particolare con la problematica della crisi (confronto da una parte con lo studio puramente esegetico), dall’altro con l’accostamento barsottiano della Scrittura.
  2. c) Tempo: mi pare che la proposta minima non possa non partire dalla base di un’ora almeno al giorno di studio sistematico della Scrittura per ognuno, qualunque sia la disciplina coltivata ;

– sempre la proposta minima non può non prevedere una prima conoscenza completa di tutta la Scrittura entro il triennio.

  1. d) Nella prospettiva di una ripresa e di uno studio più approfondito nel secondo triennio, almeno di certi libri e probabilmente sotto la guida dei Padri specialmente orientali (almeno di qualcuno di essi).

 

2) La parola dell’Umanità: i grandi filosofi (v. allegato B).

  1. a) Indispensabilità di un contatto diretto: nessuno di noi può totalmente prescindere da una lettura diretta, sia pure diversamente dosata e opportunamente preparata e guidata.
  2. b) Almeno di alcuni autori, o almeno di alcune parti di essi, se non altro per acquisire il senso delle proporzioni, misurare se stesso e gli altri, conquistare il gusto delle cose forti, vigorose, inventive: e in particolare per ognuno, parti specificatamente adeguate alla disciplina coltivata

– di S. Tommaso

– e dei grandi del pensiero moderno (Cartesio, Kant, Hegel)

di qualche contemporaneo particolarmente sintomatico in rapporto all’ambito di interessi di ognuno.

  1. c) Tempo: il tutto in una prospettiva temporale più distesa, cioè in un’espressa previsione di un semplice inizio nel primo triennio: ma inizio che va tenuto subito ben presente e considerato inderogabile: almeno in una misura minima annua, forse da concentrarsi tutta in uno o due brevi periodi dell’anno.

 

3) Il circuito delle due Parole: costituisce l’anello ininterrotto di connessione permanente, tra lo studio della Scrittura e l’accostamento delle più significative pagine dell’umana riflessione sull’ essere e il suo divenire. Questo circuito può essere senza soluzioni di continuità dalla Parola di Dio alla Parola dell’Umanità, soltanto a patto che includa inderogabilmente per tutti, se pur sempre in modo e misura molto differenziata per ognuno, tre momenti essenziali (la cui portata verrà illustrata un po’ più diffusamente a parte), ossia:

  1. a) Teologia sistematica …
  2. b) Storia …
  3. c) Sapientia exemplata: accostata attraverso lo studio (anche qui molto differenziato, nel modo e nella misura, per ognuno) di alcune incarnazioni esemplari, specialmente della Sapienza profetica:

– cioè di qualche grande figura di Santo che abbia esercitato nella chiesa una funzione profetica, cioè la funzione tipica del rinnovamento ecclesiale, proponendo in momenti di massima depressione non soltanto un esempio di santità personale, ma veramente un nuovo archetipo per la società sovrannaturale;

– in particolare qualcuno di questi: Basilio, Agostino, S. Pier Damiani, Gregorio VII , Dionigi il Certosino, Savonarola;

– nel convincimento che possano esserne ricavati non soltanto degli stimoli particolarmente pertinenti per la nostra spiritualità comunitaria, ma che di più possano esserne derivati altri specificatamente attivanti il nostro sforzo di riflessione sull’incontro tra Chiesa e società civile e cultura in certi nodi nella storia e sulle nuove linee di sblocco del processo di crisi.

 

  1. V) La formazione propria di ognuno: fino a che non sono state discusse le premesse precedenti e in qualche modo fissate alcune prime linee sulle fondamenta della formazione comune, è pressoché impossibile dire qualche cosa sulla preparazione e l’attività culturale particolare di ognuno, in quanto cultore di una determinata disciplina e in quanto qualificabile per una certa preparazione precedente e per un certo stadio di maturità:

 

2. –                   da: Discorso alle sorelle sul lavoro secondo la Regola (1982)

Rivolgendosi al gruppo delle sorelle e commentando il paragrafo della Regola sul lavoro, Dossetti tocca alcuni punti particolari che obbligano la comunità a una testimonianza di vita e non solo a parole: che sia retribuito o meno, il lavoro va compiuto sempre al meglio e così da non dividere la comunità tra chi porta un reddito e chi no; inoltre deve essere privilegiato rispetto all’accoglienza o a forme di annuncio apparentemente più dirette; sarebbe meglio che non fosse solo intellettuale ma comprendesse una parte di lavoro manuale.

Il nostro lavoro deve essere sempre tale da meritare una retribuzione. Retribuito o no è sempre necessariamente un lavoro retribuito, anche se non lo è nei fatti. Se il nostro lavoro non merita una retribuzione, non è il lavoro che noi dobbiamo fare o che noi possiamo fare. Il lavoro deve meritare una retribuzione, il lavoro che non  la merita o che la merita parzialmente non è lavoro o è solo parzialmente lavoro – come ad es. un lavoro fatto male, fatto parlando la metà del tempo, consumando gli strumenti di lavoro ecc. Non dobbiamo più adottare in famiglia tra lavori retribuiti e non, in quanto tutti i lavori idealmente sono retribuiti e devono corrispondere alla loro retribuzione (che riguarda il tempo, il modo, la diligenza media ecc.). Se non li facciamo in modo da meritare una retribuzione rubiamo, in parte o in tutto, ma rubiamo.

[…] Va fatto alla  presenza di Dio come obbedienza; lavoro retribuito perché in modo o in un altro, che riscuotete o non riscuotete, per voi o per la comunità, un assegno, certo è che tutti si è poi mantenuti dalla mensa comune nella quale confluisce tutto. Quindi vi dovete esaminare. Questo è un ambito che teoricamente è chiarissimo perché non ci sono difficoltà di ordine pratico ad applicare i principi che si sono detti. C’ è solo uno spirito che rinasce sempre e prende occasione da tutto per affermare la propria volontà di non servire. Qui davvero il diavolo ci mette sulle labbra le parole esplicite o implicite: Non serviam (non servirò). Il lavoro è obbedienza, è servizio, è retribuzione; il diavolo trova dei pretesti per far sì che diventi un’altra cosa.

[…] Il lavoro è strumento normale del nostro annuncio abituale e comune a tutti, anche a quelli di noi che non parlano e che non producono lavori che possono rientrare in qualche maniera nella categoria dell’annuncio (traduzione di padri ecc.).

[…] L’annuncio fondamentale che la nostra comunità deve dare è quello che risulta globalmente dal fatto che lavoriamo e, se lavoriamo veramente con spirito buono, lo spirito buono si vede e vedendosi annuncia l’Evangelo. Sono persuaso che una delle cose che può far velo a una capacità di annuncio di una comunità come la nostra è la non evidenza del lavoro. Noi non dobbiamo fare le nostre opere buone perché gli uomini vedano, ma è anche vero che gli uomini debbono vedere e debbono glorificare il Padre nostro che è nei cieli. Sono due le proposizioni e tutte e due sono nel vangelo. Quindi l’annuncio sta in una vita secondo l’Evangelo che è vita di preghiera e di lavoro. Noi annunciamo quando preghiamo e la gente sa che preghiamo (le campane che sempre nei monasteri hanno annunciato anche agli altri l’ora della preghiera, non erano solo perché la gente venisse in chiesa, ma anche perché la gente sapesse che in quell’ora i monaci pregavano), ma anche il lavoro è annuncio. In certe circostanze questo diventa particolarmente vero. In questi mesi nei lavoro dei cubetti la nostra vita è apparse più verosimile, perché è apparsa anche come vita di lavoro, di vero lavoro, che non rifugge dalla fatica . Una certa concordia e una certa fatica manifesta nel lavoro è stato un annuncio. E tutte queste cose sono in dipendenza del concetto fondamentale che esso è obbedienza, quindi è dipendente e retribuito, fatto con la coscienza che porta una retribuzione e quindi con un esame del modo con cui è fatto; un lavoro che è la nostra offerta più sicura.

[…] Queste cose sono importantissime, sono quelle cose che vanno cercate in questa vita e che ci mancano perché la nostra vita abbia quell’evidenza di vita in tutto secondo l’Evangelo, che persuade la gente.

Certo, chi ci viene a trovare ci vuole accoglienti. Io però non ho mai voluto che la nostra comunità si trasformasse in comunità di accoglienza, e quando in parte lo è divenuta, abbiamo tagliato la corda. Le comunità di pura accoglienza possono avere tanti meriti, possono essere molto belle, ma non è la nostra vocazione. La nostra è una comunità di lavoro. Questa è la tensione che si rileva a volte anche qui, ma più a Gerusalemme. Lo so che l’accoglienza o l’annuncio espresso, verbale, ci darebbe anche il diritto di non lavorare, secondo san Paolo; ma lui ha preferito lavorare e anche noi. E’ questa la ragione che ispira alcuni nostri criteri e alcune nostre scelte. Che la cosa funzioni bene o meno bene può anche essere, però ha un senso che risponde a quello che dicevo ieri, che la nostra comunità è una comunità di vita cenobitica di stretta osservanza e nella nostra osservanza c’è il lavoro, la preghiera e un’accoglienza normalmente subordinata ad esse; non alla pari o con una certa propensione ma enormemente subordinata ad esse.

[…] Oggi si tende a costruire una società di intellettuali, senza nessuna profondità, ma all’incirca di intellettuali. Il lavoro manuale contraddice a questo, ed estrinseca delle potenze dell’uomo che invece il lavoro esclusivamente intellettuale tende a mortificare. Uno che sia veramente intellettuale tenderà ad essere sempre piuttosto astratto, a non avere un sano realismo che viene solo dal contatto con le cose. Vi è quindi il carattere penitenziale di purificazione: in una certa misura dà la liberazione anche della mente da molti pensieri superflui, che il lavoro intellettuale esclusivo tende ad alimentare. Nel lavoro intellettuale vi è una maggiore possibilità di impossessamento, di farlo cioè come fine. Come modo di arricchire se stesso. In una certa sete di conoscere ci può essere una tendenza ad arricchire solo il proprio io e quindi una maggiore tendenza al possesso. Poi un maggiore esercizio di potere conscio o inconscio, diretto o indiretto, ma naturalmente esso è molto favorito dal lavoro intellettuale. Se il lavoro intellettuale sono anche solo le lingue, anche questo è un esercizio di potere, soprattutto quando si ponga come esercizio in stato di necessità e nei confronti di altre persone che sono prive di questo strumento, di esse bisogna sempre tenere molto conto. Ci può essere un vero abuso da parte di chi sa la lingua e un atteggiamento di sospetto permanente in chi non la sa. Solo con molta carità e lealtà si può trasformare questa disparità  (che in certe situazioni può diventare molto grave) in una parità. Anche nell’ambito della Liturgia può essere ragione di possesso e di non considerazione dei bisogni degli altri (uso del latino e del greco). Ci sarebbe da augurare anche che non si accumulassero mai tutte le conoscenze in una persona sola; è abbastanza giusto che ognuno sia privo di qualche cosa. Al mio spirito ha fatto sempre molto bene non cantare, ed essere in questo in una condizione grave di inferiorità proprio nell’esercizio dell’unico atto che mi preme. Quindi non per delle ragioni repressive o di sospetto a  priori ma per un certo equilibrio spirituale, bisogna essere anche cauti nell’amministrare queste possibilità che vengono date all’una e all’altra, e controbilanciare poi tutto con l’esercizio effettivo di un certo lavoro manuale. D’altra parte un minimo di lavoro intellettuale di regola si richiede a tutti. Può esserci qualche eccezione rarissima, ma allora poi si compensa. In via normale, se si può, una certa quantità di lavoro intellettuale deve essere attribuita a tutti, non solo per acquisire un certo numero di conoscenze che sono necessarie e utili nella nostra vita, ma anche propria per sviluppare una certa facoltà di esattezza e di rigore che è una esigenza dello spirito; evita la semplicità cattiva, la rozzezza ecc. Ma tutto questo non dispensa in nessun modo dalla necessità di uno sforzo per il lavoro manuale. Ne verrà un vantaggio anche allo stesso lavoro intellettuale. In ogni caso, tanto l’uno come l’altro devono essere fatti per obbedienza.

 

3. –                   da: Relazione per il vescovo Manfredini (1983) (in: La Piccola Famiglia dell’Annunziata. Le origini e i testi fondativi 1953 – 1986, Ed. Paoline 2004, pp. 248.265-266)

Presentando al vescovo di Bologna, da poco nominato, la comunità, Dossetti si sofferma a parlare del lavoro intellettuale e di alcuni principi che lo regolano.

 

Il lavoro [va inteso] come secondo elemento essenziale [dopo la preghiera] della nostra vita e come lavoro effettivo, della durata quasi equivalente a quello comune della gente, preferibilmente in buona misura manuale, e comunque molto semplice e semplificante: sempre ubbidienza piuttosto che scelta propria e autoaffermazione, sia pure generosa e ricca; perciò abbiamo sempre preferito, anche per lo studio dei fratelli e delle sorelle e per il lavoro intellettuale, orientarci verso forme che non lasciassero spazio alla creatività personale, ma fossero piuttosto oggettiva riproduzione di testi e di modelli altrui, specialmente antichi (e quindi la prevalenza quasi totale data alle traduzioni dalle lingue sacre), non solo della nostra tradizione occidentale, ma anche della tradizione delle Chiese orientali o di altre tradizioni monoteistiche;

[..]

Il lavoro e gli studi.

Si è già accennato come intendiamo il nostro lavoro, come aspiriamo a un lavoro effettivo, sottomesso, rigoroso e di durata quasi equivalente a quello normale della gente che non ha tutte le nostre ore di preghiera. Nel corso di questi trent’anni siamo passati – in dipendenza della sede della comunità e della congiuntura economica – attraverso i lavori più diversi; da lavori a domicilio per conto della Ducati elettronica, quando essa prevedeva ancora simile tipo di lavoro, a lavori di falegnameria per conto dell’ENEL, al lavoro dei campi, alla correzione delle bozze per conto di molti editori, persino dell’editrice degli elenchi telefonici per tutta l’Italia, ecc. Oggi ci siamo attestati, in Italia e all’estero, su alcuni tipi di lavoro;

  1. Prima di tutto lavori artigianali, come tappeti, icone (incollate e dipinte), immaginette per varie occasioni liturgiche con scritte a mano frasi della Scrittura; e in Terra Santa specialmente coroncine di legno di ulivo, che retribuiscono abbastanza bene;
  2. In secondo luogo traduzioni, soprattutto dalle lingue sacre, che consentono di sfruttare e approfondire lungo il lavoro stesso la conoscenza delle lingue, specialmente dal latino, dal greco, dall’ebraico e anche dal siriaco e dall’arabo; tutto questo preferendo, almeno sinora, non intraprendere un’attività editoriale propria (per paura di appesantirci e distrarci troppo dal nostro compito più proprio, la preghiera e l’intercessione). Abbiamo così lavorato o lavoriamo per conto di varie case editrici italiane: come l’Utet, Città Nuova, Adelphi, Gribaudi e Rusconi e, pare, ora per un’editrice francese Fayard. Le quali editrici pagano molto poco anche quando si tratta di lingue insolite e difficili e di lavori con contenuto di pensiero piuttosto arduo. Ma noi abbiamo preferito questa formula pur di far conoscere a un pubblico più vasto opere di altissimo valore, pochissimo o affatto conosciute, e aventi una reale importanza per la storia e la spiritualità monastica, per lo scambio ecumenico, per i rapporti con le religioni non cristiane.

Questi due principali rami del nostro lavoro, ci consentono bene di alternare – come preferiamo – il lavoro intellettuale con il lavoro manuale e di portare avanti, nel modo che riteniamo più oggettivo, la formazione e gli studi dei più giovani.

Per questa formazione noi diamo un’importanza molto subordinata agli studi scolastici di teologia, specie speculativa, e insistiamo che possibilmente tutti, o proprio quasi tutti, apprendano specialmente le lingue sacre in modo da potere avere accesso diretto alle fonti bibliche e alle fonti patristiche e del pensiero monastico.

 

4. –                   da: Il discepolato (1993) (in:La parola e il silenzio, Paoline 22005, p. 309)

Parlando in occasione del suo 80° compleanno al Centro di documentazione, da lui fondato circa 40 anni prima, Dossetti sottolinea un essenziale aspetto che si deve premettere e comunque unire all’impegno intellettuale.

 

Il fatto nuovo culturale sperato non sarebbe poi tanto nuovo, non sarebbe tanto emergente, ma sarebbe piuttosto facilmente riassorbibile dalla storia che ci circonda, se fosse solo un fatto culturale. Un fatto veramente nuovo ed emergente – e perciò influente –  sulla storia che si sta svolgendo, sarebbe invece se da molti, anche non moltissimi, cristiani di oggi e del prossimo domani, si riscoprisse e si attuasse nella propria vita l’autentico nucleo esplosivo dell’essere discepolo di Gesù Cristo.

Perciò ho deciso di confessarvi e di motivarvi, in questo nostro incontro, quale è da tempo la mia unica ambizione (sia pure con tante persistenti contraddizioni) : cioè quella di pervenire ad essere un autentico discepolo.

 

5. –                   da: Un itinerario di vita e di fede (1994) (in: Il Vangelo nella Storia, Paoline 2012, pp. 34-35)

Dossetti in questo testo lancia un appello per uno sforzo culturale creativo, adeguata alla realtà moderna. Il rischio altrimenti è di fare una lotta di retroguardia e limitativa o repressiva della libertà umana, il che è il contrario del vero cristianesimo

 

Non c’è un’età post-cristiana per chi ha fede. C’è un’età che ha un regime mutato, un regime globale (culturale, sociale, politico, giuridico, estetico) non ispirato al cristianesimo. Cioè un’età non più di cristianità. Questo sì, e di questo dobbiamo convincerci. La cristianità è finita. E non dobbiamo pensare con nostalgia ad essa, e neppure dobbiamo a ogni costo darci da fare per salvarne qualche rottame. Il sogno dello storico Eusebio di Cesarea — che ha idealizzato Costantino e la sua opera, anzi il regime che direi formalmente teodosiano più che costantiniano, di Teodosio il Grande che ha dato le prime linee di una struttura cristiana dell’Impero — è finito, irrimediabilmente finito. È finito dappertutto. L’Italia ha conservato alcuni rottami sino a ora, ma erano rottami, non più ben giustificati neppure alla coscienza dei nostri politici, tanto è vero che su alcuni valori supremi, che consideravamo supremi — come il divorzio e l’aborto — non abbiamo saputo condurre una linea di resistenza a un livello storico e culturale adeguato, e siamo stati sconfitti. Come dovevamo esserlo. Non perché i principi e i valori che difendevamo non fossero veri nella loro sostanza ultima, ma perché non potevano essere difesi in quel contesto e in quel frammento di pensiero non organico, non motivato in maniera nuova e creativa.

E così oggi sentiamo parlare di altri valori o di altre battaglie, l’omosessualità e così via. Ma chi ci dà un pensiero adeguato che possa veramente, in maniera nuova e creativa, smontare le obiezioni contrarie? Qual è il tipo di nuova cultura che può opporsi a questo? E se ci si oppone, come ci si oppone? Con una resistenza che sa di retroguardia, che sa di imparaticcio, che sa di ripetizione di luoghi comuni, e che invece bisogna completamente reinserire in un quadro organico di cultura adeguata. Se no che cosa si fa? Si tenta di fare un regime di salvataggio dei residui della cristianità senza più l’integrazione organica del pensiero che la sorreggeva, e perciò si è destinati sicuramente alla sconfitta.

Allora la quarta convinzione profonda è che i nostri valori devono essere difesi in nome di due cose:

— di una visione organica, vitale e creativa del cristianesimo di sempre;

— e, in secondo luogo, in nome anche di una nuova cultura, veramente adeguata alle scienze umane contemporanee.

Non perché questa nuova cultura le debba assumere nel loro contenuto materiale, ma perché deve rinnovarsi nel pensiero inquadrante. Come ha fatto, per esempio, san Tommaso d’Aquino al risveglio del pensiero aristotelico in Occidente, che lo ha inquadrato in un sistema organico a quell’epoca pienamente adeguato. Ci vuole una cultura creativa: il cristianesimo forte, non debole, quello di sempre; e una cultura cristiana, animata cristianamente, adeguata alla realtà del progresso delle scienze umane. Altrimenti apparirà non solo una battaglia retriva e di retroguardia, ma apparirà inevitabilmente un’imposizione dal di fuori, costrittiva della libertà umana, il che è il contrario del vero cristianesimo, pensato come azione non nostra ma di Cristo presente nella storia e nella libertà dello Spirito Santo.

 

6. –                   da: Discorso ai fratelli sul lavoro (1996) – Gardelletta BO

In questo brano, Dossetti sottolinea le indicazioni della Regola sul lavoro mettendone a fuoco la centralità rispetto all’annuncio, alla preghiera e alla castità. Si deve notare che Dossetti non fa in questo alcuno sconto ai presbiteri, richiamandoli al pari di tutti gli altri fratelli.

 

La Regola dice ancora che il lavoro è il vero e unico modo proprio e rigoroso del nostro annunzio abituale. Come annunziamo noi? Con le nostre parole? Con le nostre chiacchiere? Con scambi anche amicali con i nostri ospiti, sia pure in bello stile? Non c’è niente, non c’è una parola sul nostro annunzio. Quello che facciamo noi preti della famiglia con le prediche, le omelie, non è previsto, non è lì il nostro annunzio abituale, è esclusivamente nel lavoro fedelmente condotto. Ogni altra parola se non è accompagnata dalla fedeltà al lavoro diventa trasgressione, ma ancor di più, chiacchiera inutile e vana, comunque sia fatta. Su questo insisto! Non ve l’ho mai detto forse con questa espressione, ma oggi ve lo dico con questa categoricità; è scritto così nella regola: il nostro annunzio abituale è il lavoro!

E poi dice ed è ancor più categorico, che “il lavoro regolare deve essere preferito ad ogni altra penitenza od opera di bene”. Non facciamo penitenza, non la facciamo qualunque cosa ci si illuda e passi per la testa di opere di bene. Siamo nella pura trasgressione! Al n. 13 è detto, a suggello di queste cose, che in gioco oltre alla nostra obbedienza e il nostro voto di obbedienza, è la nostra povertà. Se sciupiamo un momento del lavoro regolare non siamo poveri, qualunque cosa facciamo, portassimo anche dei vestiti sdruciti, ci verrebbe meno la nostra povertà essenziale, quella di non disporre da noi di nessun momento della nostra giornata: il tempo deve essere consegnato totalmente. Se ne usiamo a nostro capriccio o anche secondo le nostre intenzioni buone, ma non è quello che dobbiamo fare in quel momento, secondo l’obbedienza ricevuta, siccome il tempo deve essere ritenuto non nostro ma di Dio e della Chiesa, noi siamo come se ci appropriassimo dei beni altrui, oltre che dei nostri: rubiamo! Letteralmente rubiamo!

[…] ognuno di questi piccoli rubacchiamenti ci fa perdere grazia e ci indebolisce straordinariamente e progressivamente e specialmente ci indebolisce in ordine alla preghiera: chi non lavora bene con esattezza e rigore professionale, ci tornerò su, non imparerà mai a pregare bene. E’ vero anche il contrario che chi non prega non sa lavorare, ma è anche vero che chi non lavora bene rigorosamente e non si sforza di lavorare bene certamente non arriverà mai a una preghiera decente.

E ci indeboliscono, in secondo luogo, rispetto alla carità fraterna

[…] Ci indeboliscono poi in terzo luogo, non solo rispetto alla carità fraterna, ma rispetto alla stessa castità. E’ temerario, letteralmente temerario pensare di essere o diventare sempre più casto se si rompe sempre il ritmo di lavoro non secondo l’obbedienza, è temerario! E’ una sfida a Dio! Prima o poi si cade in grosse mancanze anche rispetto alla castità, non solo rispetto all’obbedienza, ma anche rispetto alla castità. Certe difficoltà che possiamo sperimentare ancora rispetto alla castità, dove vanno a cercare [di inserirsi]? Non nella nostra lussuria, ma prima, a monte, nel fatto che non preghiamo, e non preghiamo perché non lavoriamo bene.

 

7. –                   da: Discorso ai fratelli sul lavoro (1996) – Gardelletta BO

In questo frammento di colloquio dedicato al lavoro secondo la Regola della comunità, Dossetti mette a fuoco la forza sanante del lavoro competente e qualificato contro le passioni della gelosia e dell’invidia.

 Voglio dare rilievo alla connessione tra il lavoro e la carità fraterna sotto un aspetto particolare, che mi è sempre più evidente e chiaro in questa conclusione della mia vita, cioè l’aspetto della lotta che tutti dobbiamo sostenere contro il più grande ostacolo nella nostra comunione fraterna. Quale e il più grande ostacolo? Quello radicato nel nostro istinto di uomini. Cioè sono sempre più categoricamente convinto che il più grande ostacolo alla carità fraterna è la gelosia e anche l’invidia, che sono profondamente radicate nella psiche di ogni uomo e di ogni donna. Non c’è nessuno che sia esente da questo, come non c’è nessuno che sia esente dal peccato originale. Potrà qualcuno non sentire o avvertire meno gli stimoli della lussuria, potrà qualche altro sentire meno l’istinto dell’appropriazione della ricchezza altrui, ma una cosa che tutti gli uomini e che tutte le donne sentono è la gelosia: è un fatto antropologico universale a cui nessuno si sottrae. E questo è il più grande ostacolo nella comunità alla carità fraterna, sia che lo vediamo e che lo ammettiamo sia ancor più che non lo vediamo.

Ho sempre detto dall’inizio della mia vita di prete che, quando confessavo 10 – 12 ore di continuo a s. Luca, al santuario, e quando poi ho vissuto nella comunità, ho sempre visto che il peccato di gelosia e di invidia e quello meno confessato, meno ammesso da tutti gli uomini e da tutte le donne, e che crediamo che in noi non ci sia, ma invece c’è, in tutti, in tutti! Ed è sempre l’ostacolo principale alla comunione fraterna. Nelle donne può assumere forme ed aspetti particolari che ora non sto ad analizzare. Negli uomini è parimenti universale e allo stesso grado di intensità e di disastro spirituale, o comunque di impossibilità di progredire nella docilità alla grazia e nella conoscenza di se stessi. Ci acceca, anche se a noi qualche volta solo ci viene in mente che possa essere questo, e allora lo confessiamo come un fatto episodico oppure solo in una direzione, ma invece c’è sempre, universale e totale. Nelle donne, adesso non voglio analizzarlo, ma è essenzialmente sul piano affettivo; negli uomini è anche sul piano affettivo, ma è soprattutto sul piano del successo, della stima, dell’apprezzamento da parte degli eventuali superiori, della gara nella vita. E anche noi monaci facciamo la gara nella vita, la gara forse per un piccolo nascosto pezzettino di responsabilità comunitaria, ma anche noi l’abbiamo e vizia totalmente.

E c’è da dire una cosa particolare che è poi il sugo della storia. Questo confronto con l’altro è stimolato spesso tanto più quanto più l’altro o noi stessi siamo nell’inerzia o nella inosservanza (è qui il collegamento) abituale del lavoro. Questa minore osservanza del lavoro ci fa trovare ovviamente nella condizione di inferiorità oggettiva rispetto agli altri perché non esercitata, non qualificata, non sviluppata nella nostra attitudine al lavoro che ci è affidato per l’inerzia nostra. Ci mette dunque in uno stato di inferiorità rispetto agli altri. Ma questo stato di inferiorità è quello che stimola ancor di più la nostra emulazione; il non trovarci qualificati, il non trovarci soggettivamente apprezzati – come è giusto del resto, perché non valiamo – da parte del superiori, da parte della comunità, invece di stimolarci a lavorare per qualificarci, paradossalmente ci stimola ad invidiare di più. Questo è il paradosso: quanto pieno ci si impegna – e tanto meno quindi si può progredire in una qualifica – tanto più non lo si vuole confessare abitualmente e riconoscere a pieno i meriti dell’altro.

E allora ci si chiude in una spirale di autogiustificazione e troviamo tutti i pretesti per fare sempre meno e per invidiare sempre di più chi ci passa davanti. Restiamo sempre più prigionieri di un desiderio inappagato, e veramente inappagabile, di riconoscimenti e di valutazione da parte degli altri, e quindi in un rodimento continuo che impedisce non solo la carità, ma la giustizia vicendevole: non ci rendiamo più un minimo di giustizia l’uno all’altro e non rendiamo più giustizia ai superiori, attribuendo le eventuali scelte a favore di altri a preferenze e parzialità, piuttosto che confessare la nostra inferiorità colpevole, e attribuiamo la colpa alla parzialità dei superiori.

Non negate, sapete! Bisogna guardarsi dentro, è un gioco paradossale, ma è pienamente vero, normale, abituale. Anche per questi motivi, non ce ne fossero altri più nobili, più soprannaturali, dobbiamo spenderci con serietà e impegno incessante nel progredire anche professionalmente, ciascuno nel proprio lavoro. Dobbiamo essere convinti oltretutto che questo non è dovuto tanto all’oggettiva importanza dei lavori confrontati, quelli che ci affidano e quelli che sono affidati ad altri. No, ma è soprattutto il grado di serietà e di intensità spirituale con cui ciascuno fa il proprio lavoro, fosse di insegnante da una parte e di calzolaio dall’altra. E’ il grado di impegno e di intensità! Il calzolaio della comunità, o prima o poi, se ha un impegno straordinario, viene riconosciuto palesemente, oltre che da Dio, anche dagli uomini. Si fa valutare secondo giustizia: non solo da Dio mia anche dagli uomini, e in particolare dai nostri fratelli della comunità. Certo la gara non deve essere fatta per raggiungere un riconoscimento, ma deve essere fatta oggettivamente, per qualificarci di più, per poterci spendere di più a favore di Dio e della Chiesa di cui è il nostro tempo.

 

8. –                   da: Intervento su Il lavoro e la Piccola Regola di Dossetti, Convegno Il lavoro nel pensiero di Giuseppe Dossetti, 15-16 ottobre 2011

Nel riflettere sull’insegnamento di Dossetti, don Giovanni Nicolini propone il suo sguardo sulla realtà concreta delle nostre comunità e sul compito, ineludibile, affidato ai giovani, in particolare se studenti.

 

Il lavoro può ancora generare stabilità interiore e sociale?  Secondo me il lavoro è un grande regalo. Certo è stato detto che il lavoro è conseguenza del peccato. Però il lavoro nel testo di Genesi è citato anche prima del peccato, quando viene dato il grande compito di coltivare e custodire tutta la creazione.

Sono convinto che per Dossetti, dopo la Messa, il lavoro fosse la cosa più bella. Il testo della Regola da molti anni suscita in me una domanda: com’è che parla così bene del lavoro? Credo che sia dovuto al fatto che per lui è veramente la prosecuzione della Messa e della preghiera. E quindi non un’altra cosa, o meglio, la possibilità nei tempi che non sono quelli della preghiera di continuare a vivere, nella grazia, la potenza, l’incontro, l’affetto, la comunione, la verità. Per questo credo che quel punto della Regola esprima in forma altissima la preghiera, ovvero il lavoro come un dono.

Non solo. Dice la Regola che il lavoro è “obbedienza”, possibilità di stare nella comunione con il Padre da figli, al di là del puro atto di fede celebrato. “E’ prolungamento dell’eucaristia e della liturgia delle ore, oggetto normale della nostra offerta”, una vita regalata quindi. Deve, perché importante, essere “preparato con zelo religioso”, una grande liturgia appunto. Davanti al pericolo di una riduzione del Vangelo a etica, … è una possibilità straordinaria di prolungare, anzi di far nascere, il rapporto di Dio con la storia, a partire da quella liturgia alla quale riconduco poi la mia storia. La stessa parola “mortificazione” può effettivamente mettere in imbarazzo se non compresa dentro l’orizzonte del continuare a celebrare quel dono della vita…

Sono convinto che per don Giuseppe anche il lavoro fosse una grande liturgia. Non c’è una separazione, prima c’è stato questo e poi ci sta quest’altro, ma una cosa genera l’altra. Il legame tra lavoro e eucaristia è fondamentale: l’eucaristia è chiamata ad essere fonte di una vita operosa e questa operosità è quel pane e quel vino che io depongo sull’altare per la celebrazione della liturgia.…

Ebbi la fortuna di carpire una conversazione tra due padri costituenti. Essi pensavano che la parola lavoro, collocata all’inizio della Costituzione, dovesse affermare una estensione straordinaria del suo significato, non tanto in termini di produzione di oggetti o di servizi, ma latinamente come fatica, come labor; e quindi pensavano alla Repubblica fondata sul lavoro come una società frutto della fatica di tutti, del bambino che impara a leggere e scrivere,  di chi guida l’autobus in città, del grande artista che perfeziona la sua capacità, e via via fino al nonno che fa la sua ultima fatica perché si sta congedando da noi per ritornare alla casa del Padre. Questa parola abbraccia la fatica come dovere di ciascun cittadino, come dovere dello stato – siamo ai primi articoli della Costituzione – di fare in maniera che ognuno possa esercitare pienamente la sua cittadinanza, che ognuno quindi possa celebrare bene la liturgia della sua fatica: chi studia come chi lavora, chi impara a scrivere come chi si ammala. La società è il frutto di questa compartecipazione della fatica di ciascuno e di tutti, con la cura che ognuno la possa esercitare. …  Da questo punto di vista il lavoro può essere riletto come una grazia, la possibilità che la vita di fede abbia anche la sua esplicitazione nella storia comune, ordinaria, di ciascuno. Tra l’altro con la preziosità della diversità, perché i doni sono diversi uno dall’altro, e quindi sono diverse le mansioni, tutto dominato da un unico dono, dice Paolo nella prima lettera ai Corinzi, che è quello della carità …. in un corso di esercizi spirituali che Dossetti predicò a Camaldoli quasi 45 anni fa, commentava la prima Lettera ai Tessalonicesi. Al terzo versetto del primo capitolo Paolo dice che prega sempre per loro, ringraziando per tre cose: per l’opera della loro fede, per la fatica del loro amore e per la pazienza della loro speranza. La parola fatica nella lingua greca è interessante, usata non moltissimo nel Nuovo Testamento, e vuole significare proprio fatica fisica e mentale, anche molto pesante. Paolo la rivendica per parlare del suo lavoro, del fatto che fa il tendaio per non stare a carico di nessuno. E parlando dell’amore dice che ringrazia per questa loro fatica dell’amore. […] Per Dossetti il lavoro è in certo modo il volto laico della carità, l’ambito laico della carità. Quello spazio di laicità in cui tu custodisci il dono di Dio, la perla suprema del dono di Dio, il dono dell’amore, e lo espliciti nella tua relazione con il tempo, con gli oggetti, con la tua obbedienza, con la tua tanta o poca capacità tecnica e con gli altri, con delle diversità che si mettono insieme. In questo il lavoro è allora un grande avvenimento di incontro, appunto di queste diversità …

Rispetto alla condizione dei giovani capisco che vivono infinite preoccupazioni, a partire dal fatto che non si può pesare sulla propria famiglia di origine continuando a studiare. Si tratta di giuste ragioni però c’è lo studio… Credo sia molto importante che gli studenti studino molto. Nella mia piccola scuola media parrocchiale “eretica”, l’unica forza di disciplina che ho è la parola studente, che è il participio presente del verbo studiare. Dico ai ragazzi: “scusami tu sei uno studente? Qual è la caratteristica dello studente? È quella di studiare!” Anche lo studiare è un grande regalo, non si può troppo dissociarlo dal lavoro, ma certamente lo si deve associare anche al dono. In questo momento mi sembra molto importante sottolinearlo. La fiducia è che l’evoluzione delle cose, il superamento dei momenti più difficili, premierà anche chi ha molto studiato. Però è molto importante in sé il lavoro dello studente. Nel mondo israeliano, i ragazzi che finiscono le scuole superiori devono obbligatoriamente fare tre anni di servizio militare armato, le ragazze di due anni. …. Una rovina. Però, di per sé, la scuola è di altissimo livello. La proposta formativa impegna un ragazzo che si iscrive ad una università umanistica a frequentare anche una facoltà scientifica e viceversa. Gli esami contano poco perché tutti i giorni si fanno sei-sette ore di seminario, un lavoro immenso. Credo che in mezzo al dramma che stiamo attraversando, che il nostro Paese sta attraversando, gli studenti si debbano sentire incoraggiati. Se fate manifestazioni, vengo volentieri anche io, però voi avete prima di tutto la “manifestazione del libro aperto” che secondo me va tenuta sempre in grande valore e in grande prestigio. [G. Nicolini]