Enrico Morini

Enrico Morini (1947), docente universitario, reagisce alla pubblicazione di una lettera di mons. Re a mons. Biffi sul settimanale diocesano Bologna Sette, ritenendola lesiva della memoria di Dossetti. Il testo analizza e reagisce a diversi argomenti portati dai prelati e rappresenta una reazione a caldo molto sommaria.

PERCHÉ TANTO ACCANIMENTO?

In occasione del centenario della nascita di don Giuseppe Dossetti si sta verificando un fenomeno quanto meno inconsueto e per me causa di turbamento e di amarezza.
Mentre di solito, in questa ricorrenza, del celebrato vengono messi in evidenza i meriti – e semmai sottaciuti i demeriti – nel caso specifico sembra accadere esattamente il contrario: questo anniversario è diventato, in ambito ecclesiale, un’occasione per esprimere serie critiche al pensiero di don Giuseppe. Perché questo accanimento? Esso non mi sembra giustificato né in merito all’opportunità né quanto ai contenuti.
Il punto di partenza è stata la ripresa, da parte del cardinale Giacomo Biffi, di quanto scritto nel 2010 nelle sue “Memorie e digressioni di un italiano cardinale”, ripubblicato dall’autore in un estratto dal titolo “Don Giuseppe Dossetti. Nell’occasione di un centenario”.
Non nascondo che a me – che mi affidai alla paternità spirituale di don Giuseppe ed ho provvidenzialmente fruito della paternità episcopale del cardinale Biffi – la posizione critica espressa dal cardinale è molto dispiaciuta, sia per quanto riguarda i rilievi nell’ambito della visione politica di Dossetti – rilievi da me, modestamente, non condivisi – sia soprattutto per le riserve avanzate in ambito teologico.
Riconosco però che l’intervento del cardinale Biffi, per altri aspetti, mi aveva anche molto consolato: come egli stesso scrive, si è trattato di “omaggio affettuoso”, dal quale emerge la stima del vescovo per questo suo sacerdote, definito un “autentico uomo di Dio, un asceta esemplare, un discepolo generoso del Signore che ha cercato di spendere totalmente per lui la sua unica vita, un modello prezioso seppur non facile da imitare”.
Anche la critica più pesante, quella relativa ad una “cristologia improponibile”, cioè all’accenno che Dossetti voleva fare nel discorso commemorativo del cardinale Giacomo Lercaro alla possibilità che la legge antica sia ancora salvifica per gli ebrei – rilievo del cardinale Biffi che mi trova questa volta, sempre modestamente, consenziente –, mi sembra che si situi, in ultima analisi, in un contesto estremamente lusinghiero per don Dossetti: vediamo infatti un oratore così altamente qualificato che sottopone, con un grande esempio di umiltà, al suo vescovo il testo da pronunciare, affidandoglielo integralmente perché lo modifichi a suo piacere, e conseguentemente accettando, in una totale anche se sofferta ubbidienza, di modificare il testo, rinunciando ad esporre un concetto che evidentemente gli stava a cuore. Non mi sembra condannabile per questo suo pensiero: una persona è giudicabile per quello che dice, non per quello che pensa di dire, altrimenti si farebbe un processo alle intenzioni.
Anche l’insistenza del cardinale Biffi sulle difficoltà di intesa, negli ultimi tempi delle rispettive vite, tra don Divo Barsotti e don Giuseppe Dossetti, mi sembra che sia esemplare della statura spirituale di don Giuseppe: nelle parole “anche se lei volesse staccarsi da me, io non mi staccherò da lei”, c’è tutta la dimensione di un grande padre spirituale che, proprio per questo, sa anche essere un perfetto figlio spirituale.
Poi però c’è stato il fatto nuovo, per me increscioso: domenica 30 dicembre il settimanale “Bologna Sette” dell’arcidiocesi di Bologna, allegato ad “Avvenire”, ha pubblicato – con un occhiello in prima pagina – una lettera del cardinale Giovanni Battista Re al cardinale Biffi di compiacimento per la nuova pubblicazione.
Trattandosi della riproposizione di testi già pubblicati, che sicuramente il cardinale Re già conosceva, questo scritto del prefetto emerito della congregazione per i vescovi viene ad assumere – a prescindere dalle intenzioni del mittente – il significato di congratulazioni per il colpo assestato alla memoria del sacerdote. E pubblicare sul settimanale diocesano questo messaggio personale, sia pure con l’autorizzazione del destinatario, vuol dire assestarle un altro colpo!
Anche quanto al contenuto, lo scritto del cardinale Re mi è sembrato ingeneroso. In primo luogo fa riferimento “a lacune e anomalie della teologia dossettiana”, che restano alquanto imprecisate. Sono in corso di pubblicazione gli “omnia quae inventa sunt” di don Dossetti, discorsi, lettere, catechesi alla sua comunità, ritiri spirituali da lui predicati, il diario spirituale giovanile e persino le omelie registrate a viva voce: lì precisamente, in quello che ha detto e scritto, vanno cercate le eventuali anomalie e lacune della sua teologia e non in quanto aveva pensato di dire.
Secondariamente il verbo “usurpare”, in merito alla funzione di don Dossetti nel concilio Vaticano II, mi sembra alquanto pesante: poiché monsignor Pericle Felici era segretario generale del concilio mentre don Dossetti fu per breve tempo segretario dei quattro cardinali moderatori da loro investito di questo incarico, si trattò piuttosto di un conflitto di competenze anziché di un’usurpazione.
In terzo luogo l’indiscrezione che nella “Positio” sulle virtù del venerabile Paolo VI vi siano ben due pagine dedicate a don Dossetti mi ha allarmato, facendomi temere che egli vi venga ingiustamente messo in cattiva luce.
Mi chiedo dunque: perché tanto accanimento, verso una persona che sicuramente, nella storia recente della Chiesa, si è qualificata ed esposta in senso, per così dire, “progressista o innovatore” prima, durante e dopo il concilio, ma che sempre si è mossa nel solco della più totale aderenza all’ortodossia e alle indicazioni del magistero, costantemente immune dalle “fughe in avanti”, alle quali purtroppo abbiamo assistito nel dopo-concilio, ed anzi preoccupata e critica nei loro confronti?
Certe aperture nei confronti del sacerdozio femminile o nell’ambito della morale, espresse da un altro uomo di Chiesa recentemente scomparso, grande nella vita spirituale e nell’azione pastorale, da don Giuseppe non si sono mai sentite. Quello che noi abbiamo imparato dal suo magistero è stata invece la fedeltà alla tradizione della Chiesa indivisa, una morale, anche dal punto di vista sessuale, estremamente esigente, che non poteva non essere il frutto di una grande lucidità proprio teologica, e soprattutto un’esegesi scritturistica ancorata saldamente al criterio ermeneutico fondamentale, quello tipologico, che vede il Cristo prefigurato in ogni parola della Sacra Scrittura, in una critica serrata – mi si perdoni il gioco di parole – degli eccessi dell’esegesi storico-critica. Ricordo come una volta, nell’ambito di un seminario universitario, per avere io detto che il criterio fondamentale per comprendere la Scrittura è interno alla Scrittura stessa, mi fu risposto, da parte di un collega, un cristianista di fama di militanza laica, che era ormai tempo di finirla con questo “dossettismo”.
Nel chiedermi: perché proprio, adesso contro di lui, questi anatemi, anche se virtuali e più o meno vellutati?, esprimo un auspicio, quasi una sollecitazione: che cioè proprio a conclusione dell’anno centenario non soltanto ci si limiti a riconoscere l’intensità della vita spirituale di don Giuseppe Dossetti, ma, con l’autorevolezza che può provenire solo dal magistero della Chiesa, si sgombri il campo da ogni sospetto di devianza dottrinale che dopo la sua morte sembra che si voglia autorevolmente insinuare. La Chiesa glielo deve, per la sua fedeltà ed il suo amore ad essa e per il conforto spirituale dei suoi discepoli, che da lui hanno imparato questa fedeltà e questo amore.

Bologna, 31 dicembre 2012

[Enrico Morini]