Carlo Lesi

Carlo Lesi, che fu poi primario di dietologia all’ospedale Maggiore di Bologna, partecipò assiduamente negli anni ’70 la liturgia della Parola del sabato sera a Monteveglio, accostandosi così in quel periodo alla Piccola Famiglia dell’Annunziata. La sua testimonianza è espressiva dell’itinerario di molti frequentatori di quelle liturgie e conserva note dettagliate e molto rievocative sul modo “fisico” di don Giuseppe di spiegare la Scrittura.

Per non dimenticare don Giuseppe Dossetti

Erano gli anni ’70 del ‘900 ed avevo 23 anni. Pur con un’educazione di forte impronta cattolica materna – diciamo pure coercitiva – non partecipavo più alla vita parrocchiale e non andavo più a Messa. Da tempo avevo smesso di frequentare anche l’oratorio ed il messaggio della Chiesa non mi interessava più. Per caso in centro a Bologna incontrai un amico della parrocchia che anche lui l’aveva abbandonata e che con molto entusiasmo mi parlò della Comunità di Monteveglio e di Dossetti. In particolare mi accennò alla Liturgia della Parola del sabato sera. Incuriosito, con lui ed altri amici, salii un sabato sera a Monteveglio e vi partecipai. Venendo dalla vita parrocchiale dove le partite a calciobalilla ed a ping pong la facevano da padrone, mi trovai subito spiazzato e confuso ad ascoltare la storia di un uomo – un profeta: chi era costui?  – che concimava la propria vigna o che accoglieva sempre e comunque la propria moglie che lo aveva tradito.
È passato tanto tempo da allora e mi scuso se sono impreciso. A questo punto però ci fu in me una strana mutazione: anche se capivo poco, rimanevo attratto – quasi calamitato – da quei discorsi tanto che ci tornai più volte. Al sabato sera, invece che andare a divertirmi, salivo al monte. Mi rendevo conto che in quei momenti non si barava, ma si andava diritti al cuore del problema che poi capii essere il centro dell’annuncio della salvezza. Non si mescolava l’annuncio evangelico con la morale di vita. Se in parrocchia l’omelia era moralistica e retorica, se le distrazioni dell’oratorio – cineforum compreso – si confondevano con il catechismo per gli adulti misto alla politica per cui non si capiva più quale fosse il nesso che collegava l’uno con l’altro, nelle liturgie di Monteveglio si stava saldi sui testi che venivano analizzati e sminuzzati fin nei più piccoli iota. Anche una “e” o un “e disse“ portava in sé e con sé un significato profondo che veniva esaminato con puntigliosa precisione. Non doveva essere perso nulla, non doveva cadere per terra nulla della parola divina come dell’Eucarestia. Mi sembrava quasi che si volesse andare fisicamente dentro al testo, penetrare, immergersi nel testo sacro. Ovvio che lo spirito giovanile facile agli entusiasmi ne rimase affascinato, tanto che mi feci portavoce presso altri amici della esperienza che stavo vivendo.
Ritornando a frequentare la parrocchia, con altre persone riuscimmo con fatica a convincere il parroco pre-conciliare a dar vita ad alcune serate in cui leggemmo in chiesa La lettera ai Galati. Ci fu un certo afflusso di fedeli. Fu una conquista molto sofferta. Il parroco fra la benevolenza e l’ironia ci chiamava i “protestanti”. Spesso ci facevamo vedere in giro con la Bibbia tascabile, non per ostentazione o per imitazione, ma perché credevamo nelle nostre scelte. Forse ci piaceva andare controcorrente. Fa parte dell’animo giovanile.
Delle mie salite a Monteveglio ricordo in particolare la figura ieratica di Don Giuseppe che amava spaziare nelle ampie distese spirituali e teologiche che la Sacra Scrittura dischiude, partendo dal testo che veniva analizzato in quel momento. Accompagnava la sua voce persuasiva con ampi gesti di un braccio, come se volesse avvicinare a sé fisicamente tutti i presenti nelle sue riflessioni. Nel palmo dell’altra mano teneva – quasi proteggendola con il vigore delle sue dita – la Sacra Scrittura in formato tascabile, come uno scrigno racchiude con cura materna una perla preziosa. Talvolta il suo viso si avvicinava molto al testo, quasi lo volesse riosservare con profonda attenzione per non commettere errori e rassicurarsi. Poi il capo si risollevava deciso per rivolgersi in modo risoluto ai presenti. Ammetto che Don Giuseppe mi incuteva soggezione, sia per la sua storia politica pregressa e per quella spirituale del momento. Era una soggezione mista a profonda ammirazione. In effetti fra di noi ci furono solo scarni scambi di parole. Oggi me ne dispiaccio. Era ed è il retaggio del mio carattere timoroso e dell’educazione ricevuta da genitori operai e non acculturati che si rivolgevano con profonda e rispettosa soggezione a chi ritenevano superiori a loro, a chi aveva studiato.
Ricordo che una volta uno dei presenti chiese a Don Giuseppe perché nelle Messe all’omelia le scritture non venissero spiegate con la stessa profondità e ricchezza di riflessioni che si usava a Monteveglio. Rispose che finché un sacerdote annuncia che Cristo è venuto sulla terra, è morto, è risorto e ritornerà alla fine dei tempi, quel sacerdote è credibile e va ascoltato senza remore.
Uno di quei sabati sera ci annunciò che non avrebbe commentato le Scritture, ma che si sarebbe immerso nelle gravi e complesse problematiche del Medio Oriente: era appena successo il massacro del Settembre nero (settembre 1970) dei palestinesi rifugiati in Giordania. La sua disamina – che partì dalla istituzione dello Stato di Israele nel 1948 con la traumatica evacuazione dei palestinesi che vi abitavano – fu ben documentata, ampia e profonda chiamando in causa le potenze occidentali quali responsabili di tale violento e drammatico esproprio di terre da parte di Israele ai danni dei palestinesi. Quasi volessero rifarsi una verginità dopo l’ Olocausto. Ne sono poi seguite numerose guerre. Ebbi la sensazione di ascoltare il Dossetti politico. Fu una lezione di storia quale non avevo mai sentito sui banchi di scuola.
Poi il lavoro e la famiglia non mi permisero di essere così assiduo come prima, anche se ho avuto la fortuna nella vita di frequentare ed ascoltare sacerdoti che si sono mossi sulla traccia del suo solco. In realtà non era il solco di nessuno, era solo la riscoperta della centralità della Scrittura – oltre che dell’Eucarestia – nella nostra vita di fede, centralità negletta per secoli nella Chiesa almeno quella ufficiale. Con il Concilio Vaticano II se ne sono cominciati a vedere i frutti.
Questa esperienza – seppure vissuta marginalmente rispetto alla Comunità di Dossetti – mi ha plasmato sul piano spirituale. Anche se l’ascolto della Parola non è stato sempre costante e assiduo da parte mia, scomparendo e riemergendo nella mia vita come un fiume carsico, ho capito ed ho ben presente che assieme all’Eucarestia è il perno della fede. È il bagaglio più prezioso che mi porto dietro dalla giovinezza. Tutto il resto sono orpelli umani.
In una occasione ho voluto passare idealmente il testimone ai miei due figli maschi ancora piccoli (9 e 11 anni circa), portandoli con me il 22 febbraio 1986 all’Archiginnasio di Bologna quando a Dossetti fu conferito dal Comune l’Archiginnasio d’oro. Ho ancora nelle orecchie l’attacco del suo discorso: “E’ scritto“ ovvero uno scultoreo ed incisivo: “Scriptum est“. Ammetto che per loro fu una sofferenza e forse fui eccessivo nelle mie esigenze, ma riuscii a restare fino alla fine. Desideravo che vedessero un “grande uomo“ (nel senso più completo del termine comprendendo l’uomo studioso, quello politico e quello di fede). Ovvero che, se qualcuno – ora che hanno da poco superato la soglia dei 40 anni – chiede loro chi era Dossetti, sappiano rispondere per non dimenticare.