Antonio Cacciari

Antonio Cacciari, patrologo e ricercatore universitario, inserisce la figura di Dossetti nella cornice più ampia della sua comunità monastica e del servizio alla chiesa bolognese. Alcuni temi: la priorità del contatto diretto con la Parola di Dio su ogni mediazione culturale, il territorio e la chiesa locale, la spinta verso le parrocchie, la rilevanza della spiritualità di Dossetti per la Chiesa bolognese.

Un ricordo personale su don Giuseppe Dossetti
I miei ricordi su don Giuseppe Dossetti risalgono agli anni ormai lontani dell’Università. L’approccio fu indiretto, perché, quando ancora non lo conoscevo di persona, riguardò in un primo tempo la sua comunità. Accadde che una sera un amico mi invitasse a un incontro che si sarebbe tenuto nella parrocchia del villaggio I.N.A., allora retta da don Ernesto Vecchi; leggeva e commentava le letture bibliche delle domeniche d’Avvento don Umberto Neri, della Comunità di Monteveglio – quella che poi si sarebbe chiamata “Piccola Famiglia dell’Annunziata”. Di questo gruppo monastico sapevo ben poco: quando era stato fondato, appunto da d. Giuseppe Dossetti, io ero ancora un bambino, e non potevo avere ricordi personali delle vicende della storia nazionale e locale degli anni ‘40-‘50 che lo avevano visto protagonista. Tornando a casa, quella sera, e ripensando a quell’incontro, mi rendevo conto – forse un po’ confusamente – di essere stato vivamente colpito dallo stile esegetico di don Umberto, persona di lucida intelligenza e di vasta dottrina, conoscitore profondo della Scrittura, che interpretava secondo le linee della grande tradizione patristica, e monastica in particolare. Era, se così si può dire, esponente di un rigoroso radicalismo biblico, e – rifuggendo da toni neutri e da più o meno facili “mediazioni” culturali (un’espressione alquanto in voga in seno agli ambienti cattolici più illuminati degli anni ‘70) – metteva continuamente l’accento sulla priorità assoluta della Parola di Dio rispetto a qualsiasi discorso umano, a qualsiasi tendenza “umanistica”.
Don Umberto lasciò il segno, tanto che qualche volta, e per alcuni anni, la domenica mattina molto presto, insieme con altri, salivo a Monteveglio per partecipare alla liturgia della Comunità. Ricordo con gratitudine una serie di conversazioni – ma erano vere e proprie lezioni – che don Umberto tenne a beneficio di un gruppo di amici insieme coi quali mi accingevo a partire per la Terrasanta. E ricordo ancora, negli anni successivi, fino a poco prima della sua scomparsa, molti scambi di opinione su argomenti biblici e patristici, quando capitava di vederci al “Centro di Documentazione” (oggi Biblioteca G. Dossetti) di via San Vitale.
Don Giuseppe ebbi modo di incontrarlo qualche volta a Monteveglio, all’inizio degli anni ‘70, sempre durante le liturgie; potei così conoscerne il carisma spirituale, che a mio parere emergeva in modo del tutto speciale proprio all’interno della sua comunità. Nel corso di quel viaggio in Terrasanta – al quale la comunità di Monteveglio aveva dato un contributo organizzativo essenziale – almeno in un paio di occasioni ci trovammo con don Giuseppe, che allora (si era nel 1974) stava a Gerico, nella casetta di cui da qualche tempo la famiglia monastica poteva disporre. Ricordo in particolare una volta che capitò di mangiare insieme, lui, alcuni monaci e il nostro gruppo; e, inter pocula, si parlò della situazione politica internazionale, sulla quale era più che mai informato, potendo godere fra l’altro di un punto d’osservazione privilegiato come lo Stato d’Israele. Forse dapprima, non lo nego, mi stupì (come accadde anche ad altri, come poi seppi) che la politica potesse ancora appassionarlo a tal punto, sapendo quali delusioni gli aveva riservato, e che aveva abbandonato tutto per abbracciare sacerdozio e vita monastica. Tuttavia le vere passioni intellettuali sono difficili da estirpare, come dimostrano non pochi casi nella storia del cristianesimo (S. Agostino e la retorica!).
E infine, ricordo che una volta alcuni amici lo avevano convinto a tenere un incontro al Centro Poggeschi dei padri Gesuiti, in via Guerrazzi; qualcuno gli domandò quale fosse, a suo parere, la via più opportuna di impegno ecclesiale in quel periodo (si era alla fine degli anni ‘80, se non erro). Don Giuseppe esortò ad “andare in Parrocchia”: alle realtà, cioè, più storicamente consolidate e saldamente radicate sul territorio; c’era, forse, una velata polemica contro un “movimentismo” cattolico che allora dilagava, ma c’era anche una sua idea costante – sia di politico (i “quartieri”), sia di ecclesiologo conciliare (la “Chiesa locale” e tutti i suoi corollari) – : il decentramento, in particolare come opposto dell’ “accentramento”. A quel punto, non so come, mi venne da chiedergli come mai, se la scelta migliore era quella che ricadeva sulle forme più antiche e tradizionali, lui personalmente, pensando alla vita monastica, avesse scelto di fondare una comunità ex novo, anziché rivolgersi a una delle numerose comunità monastiche già presenti da secoli o addirittura da millenni in Italia e nel mondo. Devo dire che don Giuseppe non gradì quest’uscita, che evidentemente giudicò un’impertinenza (ma non era certo nelle mie intenzioni!), perché la risposta non si fece attendere, e non fu proprio benevola.
Per concludere questo ricordo, sono tuttora e più che mai convinto che la comunità della Piccola Famiglia dell’Annunziata sia stata e sia una delle realtà più importanti nella storia della spiritualità della Chiesa bolognese; per essa, oltre che per tutto il resto, dobbiamo ringraziare don Giuseppe Dossetti.
[Antonio Cacciari]