1996 – A. Bertani, Giuseppe Dossetti (testo)

1996 Famiglia cristiana

Angelo Bertani, Giuseppe Dossetti

in “Famiglia Cristiana” del 31 marzo 1996
Periodici San Paolo, Alba (CN)

«Sentinella, a che punto è la notte?». La domanda sale alle labbra spinta dall’incertezza e dall’angoscia di questa oscura stagione. Quando finirà la crisi e la speranza potrà prendere il posto della disillusione?

«La notte è notte», risponde Giuseppe Dossetti, «Siamo di fronte ad evidenti sintomi di decadenza globale. C’è una diffusa inappetenza dei valori che realmente possono liberare l’uomo. E prevalgono invece appetiti crescenti di cose che sempre più lo rendono schiavo. Ognuno è sempre più solo, la comunità è fratturata sotto il martello che la sbriciola. Bisogna convertirsi».

In questi anni molti sono saliti sulle colline bolognesi, agli eremi di Monteveglio e di Monte Sole, per interrogare questo monaco di ottantatre anni, che ama soprattutto la parola di Dio e il silenzio. E chiedere a lui dove stiamo andando nel buio e nella nebbia che ci circondano.

Una personalità unica

Giuseppe Dossetti è una personalità unica. Molti lo considerano, e non a torto, un “padre della Patria”. Ma, almeno nel senso dei santi monaci e dottori, lo si potrebbe meglio annoverare tra i “padri della Chiesa”. Negli ultimi cinquant’anni nessuno come lui è stato ad un tempo protagonista appassionato e spesso determinante delle vicende civili e religiose del nostro Paese; e insieme osservatore lucido e distaccato, i cui giudizi affilati – magari sussurrati a bassa voce, come oggi la poca salute gli impone – lasciano il segno nelle coscienze. Negli ultimi mesi anche i mass media hanno fatto gran chiasso per alcune sue prese di posizione su temi di attualità. Dossetti, infatti, dopo un lungo silenzio pubblico, ha sentito il dovere di prendere le difese della Costituzione italiana e di mettere in guardia contro il “ nuovismo” che ha invaso la scena politica. Come gli antichi monaci che lasciavano il deserto e tornavano in città in occasione delle invasioni o delle epidemie. Come san Saba, l’archimandrita degli anacoreti del deserto di Giuda, che va dagli imperatori, da Anastasio e Giustiniano, a perorare il rispetto di alcuni diritti fondamentali, così don Giuseppe non può tacere, anche se parla con fatica e disagio. Confida: «La mia riflessione e l’impegno di quasi tutte le mie deboli forze sono concentrati da decenni su temi lontani dalla costituzione e dal dibattito politico. Temi più profondi e concreti, quali l’accelerata evoluzione della situazione medio orientale, nella quale sono coinvolti, con rischi non piccoli, molti membri della nostra comunità…».

Non concede interviste, al massimo colloqui. Ma da qualche tempo si è lasciato convincere a scrivere qualche lettera aperta, qualche messaggio. L’anno scorso ha anche partecipato ad alcuni incontri pubblici a Milano, Napoli, Bari… Da questi testi e colloqui è possibile dunque, come facciamo qui, analizzare e “discernere” il suo punto di vista su molti temi attuali. Ha aderito al movimento “Pace e diritti”, per una nuova politica distinta dal potere. E spiega perché: «Noi in questo Paese, e soprattutto in quest’ora, siamo discepoli non certo di Cristo, ma neppure di Platone o di Kant; siamo figli di Machiavelli».

I comitati per la difesa della Costituzione

Nel nome di Dossetti sono nati i comitati «Per una difesa dei valori fondamentali espressi dalla nostra Costituzione». Una difesa, precisa, “critica e dinamica”, che non esclude affatto adeguamenti come l’introduzione di un ragionevole federalismo, la riforma del bicameralismo, il rafforzamento dell’esecutivo; ma in un quadro di equilibrio fra i centri di potere e di garanzia. Insomma: “custodire i principi e riformare gli istituti”. Dossetti non si accontenta di una democrazia semplificata, dove il potere venga delegato senza una vera partecipazione. Teme che attraverso le proposte di presidenzialismo si cerchi l’uomo della provvidenza e «il consenso del popolo sovrano si riduca al semplice applauso al sovrano del popolo».

Non gli interessano certo le battaglie politiche spicciole, ma sente il pericolo che nelle società dell’Europa e dell’intero Occidente prevalga «non solo un pensiero debole, ma un pensiero nichilista, che tende a travolgere tutti gli aspetti della vita individuale e della vita associata e quasi sembra lambire la stessa società ecclesiale». Ritiene essenziale capire quel che avviene oggi nel mondo ebraico e in quello islamico e di intessere con essi un dialogo vero e profondo. Di fronte a questi problemi «le “querelles” della politica italiana appaiono in proporzione molto meschina e larvale».

La sua vita del resto attraversa la storia d’Italia prima di salire sul monte della contemplazione. Di lì vede con chiarezza i movimenti della storia e i pericoli. «Rivivo nella mente», confessa, «il ricordo della sera di Caporetto: avevo quattro anni. E sono andato al ginnasio, avevo nove anni, nei giorni della marcia su Roma, nei giorni dell’avvento del fascismo. Ripensando con intelligenza matura a quell’evento ho confermato le mie impressioni infantili e di adolescente. L’impressione di una gran farsa accompagnata da una grande diseducazione del nostro paese, del nostro popolo; un grande inganno anche se seguito certamente con illusione dalla maggioranza, che però sempre più si lasciava ingannare e fuorviare. Quindi ho acquisito una cosa ben ferma nella maturazione della coscienza e nella riflessione su quei primi momenti che la mia fanciullezza e la mia adolescenza aveva vissuto, una riflessione radicata nel profondo: un irriducibile antifascismo. Non solo per il passato, ma anche per il presente e per il futuro, e per tutto quello che può assimilarlo e prepararlo».

Vede il pericolo di un nuovo fascismo? «So benissimo che la storia non si ripete mai nelle medesime maniere, però si possono dare circostanze simili o similari che poi finiscono con l’avere esiti comparabili o perlomeno in qualche modo accostabili. E questo mi sembra il momento di dire che c’è una incubazione fascista. Non dico che il futuro si presenterà negli stessi termini, ma dico che chi ha vissuto ancora molto giovane la prima esperienza di questa grande farsa e di questo inganno alla coscienza del popolo trova oggi in certi settori della nostra società equivalenze impressionanti».

Gli studi e la resistenza

Alla mediocrità e al conformismo del ventennio Dossetti contrappose subito la sua passione morale e culturale. Nato a Genova ma cresciuto a Cavriago in provincia di Reggio Emilia, si laurea in legge a Bologna. Nel 1934 si trasferisce alla Cattolica di Milano dove diventa assistente di Diritto canonico (poi, ancora giovanissimo, vincerà la cattedra a Modena). Con Giuseppe Lazzati anima i gruppi giovanili di Azione Cattolica nelle parrocchie della periferia milanese come già aveva fatto negli anni precedenti a Reggio Emilia. Durante la guerra partecipa ad incontri clandestini: ci sono Fanfani, Lazzati e La Pira, filosofi come Sofia Vanni Rovighi e Gustavo Bontadini, teologi come don Carlo Colombo. Non solo si trovano d’accordo nella condanna del fascismo e della guerra, ma maturano idee e progetti per il futuro.

Ma intanto c’è da resistere. Se Lazzati farà l’esperienza del lager, Dossetti va in montagna. Non usa armi, eppure diventa presidente del CNL provinciale di Reggio Emilia. Dimostra straordinarie capacità organizzative e politiche, lui cattolico delle “Fiamme Verdi” in un ambiente a grande maggioranza socialista e comunista. Nel fuoco della lotta partigiana matura la sua concezione della Democrazia cristiana e del nuovo Stato da costruire sulle macerie del fascismo.

Una democrazia sostanziale

«Ho cercato la via di una democrazia, non nominalistica; che voleva mobilitare le energie profonde del nostro popolo e indirizzarle verso uno sviluppo democratico sostanziale dove i cittadini fossero non solo oggetto dell’azione, ma soggetto consapevole».

«Pertanto», confessa, «la mia azione cosiddetta politica è stata essenzialmente azione educatrice. Non sono mai stato membro del governo, nemmeno come sottosegretario e non ho rimpianti a questo riguardo. Mi sono assunto invece un’opera di educazione e di formazione politica. I miei contrasti con quelli che comandavano allora sono stati non tanto contrasti di persone o di temperamenti, ma contrasti su quest’aspetto necessario dell’azione politica come formazione della coscienza di un popolo. Bisognava trarci fuori dall’abisso diseducativo del fascismo e orientare tutti verso una consapevolezza sempre più viva delle ragioni della democrazia sostanziale».

Era entrato in politica per caso. Lo avevano chiamato. Accanto a De Gasperi, Gonella, Scelba, Piccioni, Mattarella al vertice nazionale della Dc ci voleva, tra gli altri, un giovane, che avesse fatto la resistenza… e che fosse abbastanza sconosciuto da non fare ombra agli altri.

«Io non ho cercato per niente di entrare in politica», spiega con un filo di civetteria, «ci sono entrato fortuitamente attraverso una rottura di testa per un incidente di auto. Mi hanno chiamato a Roma i grandi della Democrazia Cristiana nel luglio del 1945 per il primo consiglio nazionale del partito. Io non conoscevo nessuno, non ero conosciuto da nessuno. Sono arrivato a Roma in ritardo perché avevo avuto un incidente d’auto a Grosseto. Appena arrivato Piccioni mi ha detto: “Tu sarai vicesegretario della Democrazia Cristiana”. “Ma chi? Io? Ma mi conoscete? Io non vi conosco, non ho mai visto De Gasperi e voi non conoscete me”. “Sta cheto”, mi rispose Piccioni, “stasera vedrai De Gasperi”. De Gasperi non si fece vedere, ma si votò e fui eletto. Quando sono tornato a casa con la testa fasciata mi sono presentato a mia madre e non sapevo come fare. Ho dovuto rassicurarla che non era niente, ma anche dirle che avevo una rottura di testa ben più grande. Lei sin dal principio ha avuto orrore di quel che stavo facendo…».

Ecco come la gratuità irrompe nella vita: quel giovane stimato professore di diritto canonico, che non voleva fare politica divenne un personaggio di primo piano. Lo invitarono “alla stanga”, a tirare il carro, evocando il titolo di una famosa scena agreste di Segantini. Tutti sanno che il suo contributo fu decisivo nella stesura della Costituzione, soprattutto la prima parte, quella dei princìpi. E altrettanto decisivo fu per la scelta repubblicana, vincendo le incertezze di De Gasperi e della Gerarchia. Divenne il punto di riferimento della “sinistra democristiana”, quella più ricca d’ispirazione religiosa, impegnata a costruire uno Stato che garantisse non solo un’astratta parità dei cittadini di fronte alla legge, ma anche la giustizia sociale, la crescita delle classi meno abbienti, la possibilità per ciascuno di migliorare la qualità della sua vita. Non solo amministrare la società, ma operare per migliorarla. Quello che Moro (del quale Dossetti ricorda la «collaborazione costruttiva» e «l’intelligenza acuta e pensosa») chiamerà il “principio di inappagamento”, caratteristico di una vera politica da cristiani. Con Lazzati, La Pira, Fanfani, Moro, Zaccagnini, la Bianchini, Dossetti costituì la “comunità del porcellino”: studio, preghiera, azione politica come servizio, vita comune. Qualcuno li chiamerà “i monaci della politica”, altri “comunistelli di sagrestia”. Lo stesso De Gasperi li prende in giro: «Ma che cosa volete fare voi, con il vostro San Tommaso?». Attraverso la rivista “Cronache sociali” (diretta da Giuseppe Glisenti) e la fitta rete d’incontri e di amicizia in tutta Italia, Dossetti divenne in realtà l’educatore di una nuova classe politica diversa e ben più moderna degli ex popolari e dei notabili locali riemersi dopo il fascismo e la guerra.

La svolta

Il 1951 è l’anno della svolta. Tiene due discorsi fondamentali: la famosa prolusione al congresso dei Giuristi cattolici su “Funzioni e ordinamento di uno Stato moderno”, in cui delinea l’architettura dello Stato; e quella meno nota, ma non meno importante, agli Insegnanti cattolici su “La problematica sociale nel mondo d’oggi”. Sono il suo testamento politico. Nello stesso anno Dossetti raccoglie per due volte, in agosto e in settembre, i suoi amici presso il castello di Rossena e annuncia di ritirarsi dalla politica attiva. Come dirà un testimone, Giovanni Galloni, «Dossetti spiegò perché la loro esperienza politica doveva considerarsi conclusa. Il tentativo di costruire un modello di società e di stato alternativo a quello liberale e contrapposto a quello marxista si era esaurito nelle vicende internazionali e interne che avevano reso inevitabile la battaglia del 18 aprile e l’adesione italiana al Patto Atlantico. Lo spazio esistente si era chiuso. E forse quello spazio non si era mai aperto».

Anche adesso Dossetti ribadisce: «Quando ho capito come stavano veramente le cose, e mi è sembrato di avere sufficientemente meditato, li ho salutati e me ne sono venuto via. Non mi è costato niente, non ho fatto nessun bel gesto. Ho semplicemente continuato, al di là di quell’episodio, la mia vita, con lo sbocco al quale il Signore poi mi aspettava».

«Rispetto alla grande battaglia che si combatteva in quegli anni, io ho perduto. Ma non è stata la delusione per l’insuccesso personale a convincermi che dovevo andarmene. «Io ho deciso che la stagione della politica per me fosse finita, e sono profondamente convinto che doveva finire e che sarebbe stato un grande errore proseguirla, perché non avrei raggiunto gli obiettivi che mi ripromettevo e comunque avrei ingannato, illuso troppa gente. La mia persona poteva essere copertura di cose che invece andavano tutte in senso contrario. La situazione bloccava quelle che erano le mie intenzioni, i miei progetti. C’erano soprattutto due cose insuperabili. Prima di tutto la situazione politica internazionale, la divisione in due blocchi sempre più irrigidita e sempre più irrimediabile. La seconda era la coscienza che la cristianità italiana non consentiva le cose che io auspicavo nel mio cuore. Non le consentiva a me e non le avrebbe consentite a nessun altro in quei momenti. E non so se la coscienza della cristianità italiana sia tanto evoluta da poterle consentire oggi».

Smettere ogni attività politica non significa certo arrendersi: «Bisognava operare più profondamente, a monte, in una cultura del tutto nuova e in una vita cristiana coerente». Nasce così il Centro di Documentazione, poi Istituto per le Scienze Religiose di Bologna. Un qualificato luogo di studio dove si prepara il Concilio nei temi, nei metodi e nelle persone. «E poi, quasi per un’evoluzione naturale di quei principi che erano presenti nella vita del Centro -regolato secondo un ritmo di preghiera che governava la ricerca stessa e un vincolo comunitario che impegnava tutti in uno sforzo comune – nasce l’idea di una Famiglia religiosa».

La scelta monastica

La “scelta monastica” di Dossetti viene prima di quella sacerdotale. È del ’54. La regola della “Piccola Famiglia dell’Annunziata” è approvata dal cardinale Lercaro il 22 dicembre del 1955 (e venterà prete solo il 6 gennaio ’59, dopo l’esperienza elettorale delle amministrative del ’56 in cui per obbedienza al suo cardinale, contende la carica di sindaco al Pci: senza successo, ma con un geniale programma di riassetto urbanistico e sociale che verrà poi ripreso dai suoi stessi oppositori. Quando Papa Giovanni annuncia il Concilio Dossetti capisce subito che una grande prospettiva si spalanca. A Roma accanto a Lercaro svolge un ruolo decisivo anche se poco appariscente. Non solo ha idee chiare in campo biblico e liturgico ed è esperto in diritto, ma è tra i pochi, sotto le volte di San Pietro, ad avere esperienza di assemblee e di procedure democratiche. Via via che verrà conosciuta la storia “segreta” del Vaticano II, apparirà sempre più incisivo il suo ruolo. Ed emergeranno chiarissimi i suoi giudizi, ad esempio sui limiti dell’impianto teologico della “Gaudium et Spes” e invece la spiccata preferenza per la “ Dei Verbum”, nonché il giudizio complessivo sulla grandezza ma anche l’incompiutezza del Concilio, in larga misura svoltosi pensando ancora di vivere in un regime di cristianità costituita e destinato invece ad essere messo in pratica in una società dove i credenti sono una minoranza profetica.

Tornato a Bologna, Dossetti s’impegna, in piena sintonia con Lercaro, per una decisa e tempestiva applicazione non solo della lettera ma soprattutto dello spirito del Vaticano II. Quando nel 1968 il Cardinale lascerà la guida della diocesi (benché avesse già compiuto i settantacinque anni molti parleranno di “destituzione”) Dossetti si concentrerà sempre più sulla vita della “Piccola Famiglia” impiantando comunità in Terra Santa (a Gerico e Gerusalemme), in Giordania e in Calabria. «La vita monastica, spiega, è comunione non solo con l’eterno, ma con tutta la storia, quella più vera: degli umili, dei poveri, dei piccoli, degli stranieri, dei “senza storia”, degli ignoti, dei morenti, dei morti». In questo spirito la “Comunità di Monteveglio” si è insediata con una comunità o “diaconia” a Monte Sole, dove il 29 settembre 1944 i nazisti uccisero sull’altare don Umberto Marchioni e nel piccolo cimitero fu compiuta una terribile strage. Come Wiesel dice per le vittime di Auschwitz, Dossetti invita a meditare sul fatto che Dio agonizzò nelle donne e nei bambini innocenti di Monte Sole. La presenza lì dei monaci è un segno, e quasi un anticipo, della resurrezione di quei martiri.

Post concilio

Ma come oggi valutare nel complesso questo difficile postconcilio? «Il Concilio è stato la massima grazia di questo secolo. Papa Giovanni lo aveva sentito così. Anche noi dobbiamo essere risoluti come Lui nell’accettare e nell’attuare il Concilio. Prima ed oltre i suoi documenti, esso è stato un evento celebrato in funzione di culto, di lode a Dio e di impetrazione. In questo senso l’evento trascende le stesse decisioni prese… Quindi se per assurdo non leggessimo neanche i documenti, ma facessimo memoria del Concilio come di una grande cosa avvenuta, io credo che non faremmo tutto il nostro dovere, ma forse ne faremmo la parte più importante. Se invece di fare tante discussioni pro o contro il Concilio si fosse fatta davvero memoria del Concilio, si sarebbe già fatta una parte molto importante. Se il Concilio è un evento, esso è anche un punto di non ritorno. Non si può tornare prima del Concilio. Ci sono stati conati in questo senso, ma sono conati sterili. Certo possono ridurne l’efficacia, ma non possono far tornare quello che era prima del Concilio. O si cammina al passo del Concilio o non si cammina; e dalla forza degli eventi della storia politica e sociale degli uomini e più ancora dalla forza dello Spirito Santo si è buttati ai margini della strada».

Non si può tornare a “prima del Concilio” anche perché quel mondo in cui allora la Chiesa viveva non c’è più. Ma quando la lunga agonia di un mondo vecchio che muore lascerà il posto alle doglie per un mondo nuovo che nasce? Persino Maritain, che pure aveva disegnato un “umanesimo integrale”, nei suoi ultimi anni pensava piuttosto ad una costellazione di piccoli focolari cristiani che, dispersi nel mondo, ne mitigassero l’oscurità. Torna la domanda: quanto resta della notte? «Viviamo in una crisi epocale», risponde la sentinella che da pochi giorni è tornata in convalescenza a Monteveglio. «Credo che non siamo ancora al fondo, neppure alla metà di questa crisi. Noi siamo come alla fine di una terza guerra mondiale che non è stata combattuta, ma che pure c’è stata in questi decenni. Che è in qualche modo finita, con vinti e vincitori, o con coloro che si credono vinti e altri che si credono vincitori. La pace, o un punto di equilibrio, non è ancora stata trovata, in questo crollo complessivo. Si pensi a che cosa è accaduto della Russia. Ma la democrazia americana, anche se ha vinto, non può proporre niente e sino ad oggi non ha proposto niente. Il rimescolo dei popoli, delle culture, delle situazioni è molto più complesso di quello che non fosse nel 1918. È un rimescolo totale. E in più c’è la grande incognita dell’Islam. Noi non abbiamo strumenti intellettuali per interpretare adeguatamente tutto ciò. Siamo dinnanzi all’esaurimento delle culture. Non vedo nascere un pensiero nuovo né da parte laica né da parte cristiana. Siamo tutti immobili, fissi su un presente che si cerca di rabberciare in qualche maniera, ma senza percepire la profondità dei mutamenti. Non è catastrofica, questa visione; è realistica; non è pessimistica perché io so che le sorti di tutti sono nelle mani di Dio. La speranza non viene meno. L’unico grido che vorrei far sentire oggi è il grido di chi dice: aspettatevi delle sorprese ancor più grosse e globali, attrezzatevi per dei rimescolamenti più radicali!».

La sentinella conclude: «Convertitevi!».

Ma per noi cristiani di oggi, questa crisi dell’idea di cristianità e dello stesso ideale di umanesimo quali conseguenze comporta?

«Nel caso nostro dobbiamo convincerci che tutti noi, cattolici italiani, abbiamo gravemente mancato, specialmente negli ultimi due decenni, e che ci sono grandi colpe (non solo errori o mere insufficienze), grandi e veri e propri peccati collettivi che sino ad oggi non abbiamo neppure cominciato ad ammettere e a deplorare nella maniera dovuta. I battezzati consapevoli devono percorrere un cammino inverso a quello degli ultimi vent’anni, cioè mirare non ad una “presenza” dei cristiani nelle realtà temporali, alla loro consistenza numerica e al loro peso politico, ma ad una ricostruzione delle coscienze e del loro peso interiore, che potrà poi, per intima coerenza e adeguato sviluppo creativo, esprimersi con un peso culturale e finalmente sociale e politico. Ma la partenza assolutamente indispensabile oggi mi sembra quella di dichiarare e perseguire lealmente – in tanto baccanale dell’esteriorità l’assoluto primato dell’interiorità, dell’uomo interiore».

Dossetti sente il fastidio per la grande distanza che sempre più divide le parole dalla realtà, il mondo della vita vera dalla “realtà virtuale” che ci avvolge ed illude. Guarda lontano e parla con la libertà dei monaci del deserto: «Vivremo la fede pura, senza puntelli e senza presìdi di sorta, umanamente parlando. Non avremo più il conforto dei piccoli nidi sociali, delle ultime piccole nicchie che facevano un certo tepore». «Ogni tentativo di ricostituire, o di dar da bere che si può ricostituire, una sintesi culturale o una organicità sociale che presìdi o difenda la Fede sarà sempre più un tentativo illusorio. Io prego perché noi non diamo a nessuno questa illusione, anche se una certa tentazione è sempre rinascente. I cristiani si ricompattano solo sulla parola di Dio e l’Evangelo! Di fonte alle difficoltà sempre più dovremo, in questa nuova stagione che si apre nel nostro paese, contare esclusivamente sulla parola del Signore, sull’Evangelo riflettuto, meditato, assimilato. Siamo destinati a vivere in un mondo che richiede la fede nuda e pura.

E la Chiesa stessa, se non si fa più spirituale, non riuscirà ad adempiere alla sua missione e a collegare veramente i figli vicendevole, dell’interiorità e della libertà? del Vangelo!».

(da: “Famiglia Cristiana” del 31 marzo 1996)